Secondo l’art. 2094 cod. civ. è un lavoratore subordinato «chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore».
L’art. 2104, c. 2, cod. civ., ribadisce che il lavoratore subordinato deve «osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende».
La caratteristica essenziale del lavoro subordinato è, dunque, l’eterodirezione dell’attività, nel senso che la prestazione lavorativa deve essere svolta nel modo imposto dal datore di lavoro, che impartisce ordini che il lavoratore è obbligato a rispettare (c.d. eterodeterminazione della prestazione del lavoratore subordinato).
Questo assoggettamento di una persona ad un’altra è ammesso dall’ordinamento solo in quanto limitato alla prestazione dedotta in contratto e quindi funzionalmente all’organizzazione dell’impresa (art. 2082 cod. civ.), di cui l’imprenditore è «il capo» dal quale «dipendono gerarchicamente» i collaboratori (art. 2086 cod. civ.).
Tuttavia la persona del lavoratore resta, comunque, implicata nel rapporto, con tutti i pericoli che conseguono all’ingresso nella sfera di dominio del datore di lavoro. Quando ad esempio c’è una situazione di diffusa disoccupazione il lavoratore subordinato, pur di ottenere e conservare un posto, e quindi un reddito, difficilmente rimpiazzabile, è indotto ad accettare condizioni contrattuali svantaggiose ed a subire senza proteste ingiuste prevaricazioni.
L’ordinamento vigente riconosce l’utilità dell’organizzazione della produzione in forma di impresa e la conseguente supremazia gerarchica dell’imprenditore, il quale, rischiando in proprio fino al fallimento, deve poter disporre di lavoratori subordinati mediante un contratto non a caso definito “di organizzazione”. Ma nel contempo è tutelata la posizione di questi ultimi, con un diritto del lavoro assai evoluto, finalizzato a rimuovere le diseguaglianze sostanziali (art. 3, c. 2, Cost.) e ad evitare che l’iniziativa economica privata si svolga in contrasto con l’utilità sociale o pregiudichi la sicurezza, la libertà e la dignità umana (art. 41, c. 2, Cost.).
Il lavoratore subordinato ha la possibilità di accedere a molte tutele protettive, mentre il lavoratore autonomo in molti casi ne è privo, essendo imprenditore di se stesso. Pertanto la qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato costituisce la chiave esclusiva di accesso a tutele fondamentali sia nei confronti del datore di lavoro, sia sul piano previdenziale. Quindi i lavoratori vogliono tendenzialmente essere qualificati come subordinati, anche perché le tutele sono inderogabili e, quindi, operano automaticamente per effetto dell’accertamento della subordinazione (c.d. indisponibilità del tipo).
Il processo logico-giuridico con il quale si può riconoscere un lavoratore subordinato da uno autonomo si chiama procedimento di “qualificazione del rapporto” di lavoro.
Il problema della qualificazione del rapporto non si pone, ovviamente, nelle ipotesi centrali di ciascun tipo, come ad esempio per la subordinazione dell’operaio della grande impresa oppure per l’autonomia del libero professionista con vasta clientela, bensì nelle situazioni incerte al confine tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. È proprio qui, infatti, che il criterio distintivo deve mostrare la sua idoneità allo scopo.
Cercando di riassumere un dibattito particolarmente complesso, si deve, innanzitutto, escludere una presunzione di subordinazione, perché spetta al soggetto interessato (lavoratore; ente previdenziale; Direzione territoriale del lavoro) allegare e provare ex art. 2697 cod. civ. gli elementi di fatto corrispondenti alla fattispecie astratta invocata (ad. es. eterodirezione).
Il metodo da utilizzare nell’opera di qualificazione è quello consueto ed imprescindibile del sillogismo giuridico, con sussunzione per identità della fattispecie concreta in quella astratta, conseguendone il controllo della Cassazione non sull’accertamento degli elementi di fatto, bensì sull’individuazione dello schema normativo al quale ricondurre le circostanze accertate.
Non è condivisibile il ricorso al cosiddetto metodo tipologico di qualificazione per approssimazione, secondo cui sarebbe sufficiente una coincidenza parziale tra fattispecie concreta e fattispecie astratta. Il riferimento a modelli o figure sociali tipiche può forse aiutare nell’opera interpretativa di definizione della fattispecie legale, ma la qualificazione dei fatti resta inevitabilmente affidata al metodo sussuntivo
Nel merito si può ancora ritenere decisivo il ricordato requisito della eterodeterminazione della prestazione lavorativa mediante specifiche direttive e controlli sulle modalità di esecuzione, fedelmente ancorato alla lettera della legge. Evidentemente questo elemento si atteggia in modo differente a seconda del tipo di prestazione, sicché, ad esempio, le direttive ed i controlli relativi all’attività di un medico dipendente o di un dirigente sono notevolmente diversi da quelli relativi all’attività di un operaio. Ma ciò non significa che al criterio della eterodirezione dell’attività messa doverosamente a disposizione dal lavoratore se ne aggiungano o sostituiscano altri, bensì dimostra soltanto che tale criterio essenziale va interpretato con ragionevolezza, anche riguardo alla distinzione, a volte innegabilmente difficile, rispetto alle istruzioni compatibili con il lavoro autonomo.
Gli altri indici della subordinazione elaborati da dottrina e giurisprudenza (inserimento nell’organizzazione, vincolo di orario, esclusività del rapporto, intensità della prestazione, inerenza di questa al ciclo produttivo, alienità dei mezzi di produzione, retribuzione fissa a tempo senza rischio del risultato) sono in sé compatibili anche con il lavoro autonomo, sicché possono soltanto concorrere in via indiziaria al convincimento del giudice, che deve, però, sempre fondarsi sull’imprescindibile accertamento della eterodeterminazione della prestazione.
Alle parti è consentito pattuire espressamente una duplicità di rapporti, escludendo dal lavoro subordinato ed imputando ad un contratto di lavoro autonomo determinate attività con apposito compenso.
Al contrario è un lavoratore autonomo chi opera «senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente» (art. 2222 cod. civ.) e, quindi, organizza liberamente la propria attività.
Il lavoro autonomo trova la sua disciplina essenziale nel codice civile, che, nel dettare le regole generali (artt. 2222 e ss.), fa espressamente salve (art. 2222) le disposizioni particolari del libro IV sui contratti di trasporto, mandato, commissione, spedizione, agenzia, mediazione e deposito, i quali possono essere stipulati sia da un lavoratore autonomo, sia da un imprenditore.
Tra le norme generali si segnalano quelle sulla determinazione del corrispettivo (art. 2225) anche in caso di impossibilità sopravvenuta parziale dell’opera (art. 2228), sulla difformità e i vizi dell’opera (art. 2226), sulla facoltà di recesso del committente (art. 2227). Per la prestazione d’opera intellettuale sono previste disposizioni specifiche (artt. 2229 ss.), che possono essere integrate dalla disciplina generale del lavoro autonomo 1 solo in quanto compatibile con le stesse e con l’intellettualità dell’opera (art. 2230, c. 1), salve comunque le previsioni delle leggi speciali (art. 2230, c. 2).
Sono tradizionalmente riferibili a questo secondo tipo tutte le professioni esercitate con iscrizione ad Albi (Avvocati, Medici, Notai, Farmacisti), anche se esistono anche figure che svolgono tali professioni come lavoratori subordinati. Sempre di natura autonoma è il lavoro del cd. “popolo della partita iva”, indicando così tutte quelle figure intermedie che i datori qualificano come autonome per risparmiare contributi e tasse.
Proprio nella zona di confine tra lavoro subordinato e lavoro autonomo si colloca la fattispecie del lavoro autonomo c.d. parasubordinato, che trova la sua definizione non nel codice civile, bensì in disposizioni di altre leggi.
La prima è quella dell’art. 2 della legge n. 741 del 1959 di delega al Governo per la fissazione di minimi di trattamento conformi alle clausole dei contratti e accordi collettivi, che riguarda non solo i rapporti di lavoro subordinato, ma anche i «rapporti di collaborazione che si concretino in prestazione d’opera continuativa e coordinata».
La seconda è la disposizione dell’art. 409, n. 3, cod. proc. civ., che estende il processo del lavoro, e quindi anche la norma sostanziale su interessi e rivalutazione monetaria compresa in tale ambito (art. 429, c. 3, cod. proc. civ.), ai «rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato». Mediante il richiamo a questa disposizione è stata applicata ai lavoratori parasubordinati anche la disciplina delle rinunzie e transazioni.
Proprio tale affinità tra questa fattispecie e quella di lavoro subordinato, ha spinto il legislatore a prevedere, con l’art. 2 d.lgs. 81/2015, ad estendere le tutele protettive del lavoratore subordinato anche alle ipotesi di “lavoro parasubordinato etero-organizzato dal committente in relazione ai tempi e ai luoghi di lavoro”.
Tale fattispecie resta di lavoro autonomo, non essendoci eterodirezione della prestazione lavorativa, ma ad essa si applicano le stesse norme del lavoro subordinato, con l’intenzione di diminuire i conflitti sulla qualificazione dei rapporti.
La differenza tra questa fattispecie e la subordinazione consiste infatti essenzialmente solo nell’assenza di direttive dirette sulle modalità esecutive, in quanto per il resto il lavoratore lavora dove e quando gli dice il datore.
Quando il lavoratore si veda qualificato come autonomo pur svolgendo un lavoro di tipo subordinato cosa può fare?
Aiutiamoci con un esempio. Tizia è stata assunta con contratto di lavoro autonomo per svolgere le mansioni di “assistenza amministrativa” nello studio medico “X”. In realtà in concreto ogni giorno si reca al lavoro e risponde al telefono, annota le entrate, emette le ricevute, e fa, in buona sostanza la segretaria. In qualsiasi momento, anche dopo la fine del rapporto, Tizia può chiedere in giudizio l’accertamento di lavoro subordinato o, in subordine, dell’art. 2 d.lgs. 81/2015, con applicazione di identica disciplina. Il che vuol dire che, salva la prescrizione dei crediti ogni cinque anni, Tizia potrà vedersi pagati i contributi e la retribuzione dovuti per le mansioni da lei effettivamente svolte.