Danni punitivi e diritto del lavoro

Pubblico di seguito il testo della mia relazione, sul tema danni punitivi e diritto del lavoro, tenuta alle giornate di studio AIDLASS 2022 che si sono tenute a Torino il 16-17 giugno 2022.

Nel convegno mi erano stati messi a disposizione soltanto 10 minuti e pertanto la relazione è molto breve, ma da un’idea dello studio che sto conducendo sulla pena privata e i punitive damages (danni punitivi) nel diritto del lavoro italiano.


A dieci anni dalla Riforma Fornero, il nuovo corso delle tecniche di tutela nel diritto del lavoro è caratterizzato dalla preponderanza della tecnica dell’indennità-risarcitoria, commisurata dal giudice secondo criteri previsti dalla legge, senza nesso con il danno-conseguenza, e contenuta tra un minimo ed un massimo edittale.

Questo sistema sanzionatorio, tuttavia, più che dalla precisa volontà di un legislatore previdente appare come il prodotto di una stratificazione piuttosto disordinata che ricorda Esiodo e il suo Caos da cui tutto trasse origine («πρώτιστα Χάος γένετ᾽» ).

Così, viene da chiedersi se queste indennità risarcitorie siano da ritenere ancora una forma, pur speciale e anomala, di rimedio risarcitorio da includere nel generale istituto della responsabilità civile ovvero se, al contrario, non si debba ritenere che questi rimedi abbiano preso una strada autonoma e debbano essere valutati secondo criteri nuovi e tipici di questa diversa forma di sanzione che l’ordinamento ha predisposto.

Nel nostro ordinamento, influenzato dall’esperienza francese e della dottrina tedesca della pandettistica, la responsabilità ha perso il significato negativo insito nel lemma.

L’idea pratica che il danno debba essere compensato, infatti, non si connette più all’idea di punizione, che è propria invece del diritto penale, ma soltanto ad un tentativo di attuare un sistema di giustizia commutativa attraverso un mero scambio tra bene della vita e risarcimento, sia esso nella forma specifica o per equivalente.

In questa ottica, quindi, l’ordinamento italiano vivrebbe, nella materia della responsabilità, di una rigida divisione tra funzione punitiva e funzione commutativa, consacrata nell’art. 185, c. 2, cod. pen., secondo il quale «ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento».

Questo principio implica che uno stesso fatto può produrre duplici effetti sanzionatori, l’uno destinato a punire la condotta (quello penale) e l’altro puramente volto a riparare il danno prodotto (quello, appunto, risarcitorio).

Nel diritto del lavoro, tuttavia, alla regola civilistica secondo cui il risarcimento implica la prova di un danno conseguenza si sono poste significative eccezioni.

Il maggiore sforzo in questo senso è stato operato attraverso l’utilizzo di meccanismi probatori che prescindono dall’esistenza materiale di prove sul danno-conseguenza, quali le presunzioni semplici o il principio di vicinanza della prova, come nel caso del demansionamento o della discriminazione.

La ragione di tale correzione è da ricercare nel fatto che il lavoratore dovrebbe altrimenti fare i conti con la propria incapacità organizzativa di fornire una prova piena di un qualsiasi danno-conseguenza, con il risultato non auspicabile che gli illeciti, pur individuati sul piano della fattispecie, resterebbero sovente impuniti.

Un ulteriore stimolo alla ricerca di una diversa tecnica di tutela è venuto, poi, dalle molte Direttive Europee in materia di lavoro, che prescrivono agli Stati membri di adottare tutele “effettive, proporzionate e dissuasive” a difesa dei diritti dei lavoratori previsti dalla legislazione eurounitaria.

Forse per queste o forse per altre ragioni, il legislatore nostrano ha inteso, dal Collegato lavoro in avanti, cambiare strada rispetto alla responsabilità civile tradizionale.

Esisteva già, d’altronde, un’esperienza comprovata e ben riuscita di un rimedio che prescindeva dalla prova del danno-conseguenza, e che giungeva dalla lunga applicazione dell’art. 8 della L. 604/1966.

Questa disposizione prevedeva da oltre quarant’anni una sanzione predeterminata per legge tra un minimo ed un massimo edittale e commisurata secondo criteri non correlati al danno-conseguenza, indicati nel numero dei dipendenti occupati, nelle dimensioni dell’impresa, nell’anzianità di servizio, nel comportamento e nelle condizioni delle parti.

Ebbene, questi criteri non prevedono alcun riferimento al danno conseguenza.

In seguito, la tecnica dell’indennità basata su questo modello veniva ripresa più volte, dal Collegato lavoro, alla Legge Fornero, fino al Jobs Act.

Come tutti sanno, quest’ultimo veniva poi censurato dalla Corte costituzionale, che riportava anche il Jobs Act ai criteri di commisurazione anzidetti, già previsti dall’art. 8 della L. 604/1966 e dall’art. 18, c. 5, Stat. Lav., così chiudendo il cerchio del nuovo vincente modello sanzionatorio nell’indennità-risarcitoria commisurata dal giudice tra un minimo ed un massimo edittale.

In questo panorama, dunque, è lecito chiedersi che cosa rimanga della tradizionale teoria della responsabilità civile a questi rimedi che hanno perso ormai ogni riferimento al danno-conseguenza.

Nelle tutele sopra descritte, infatti, l’elemento dell’assenza del danno quale elemento da dedurre e provare, fa assomigliare molto di più questi rimedi alle sanzioni civili o amministrative.

È vero, infatti, come sostenuto in dottrina da molti sostenitori della natura polifunzionale della responsabilità civile, che il risarcimento può avere una finalità in parte risarcitoria e in parte deterrente o afflittiva.

La differenza rilevante, che dovrebbe convincere per la qualificazione quale pena privata dell’indennità-risarcitoria, sta nella diversa finalità della sanzione rispetto al risarcimento del danno: mentre la deterrenza è per i rimedi risarcitori una conseguenza eventuale dell’applicazione della riparazione del danno, nella sanzione civile o amministrativa essa è l’unica finalità predisposta per il rimedio, che non ripara nulla, se non il torto.

Proprio l’ammontare limitato della previsione edittale e l’assenza di rapporto con il danno conseguenza, in definitiva, implicano che l’obiettivo di questa indennità sia solo la repressione dell’illecito.

Si tratta di un sistema simile a quello adottato negli ordinamenti di Common Law per i cd. punitive damages, rimedio at law, con il quale una giuria può condannare l’autore di un illecito per punire esemplarmente la sua condotta antisociale, perpetrata con intenzione fraudolenta o gravemente sprezzante dei diritti altrui, che leda interessi sia individuali che pubblicistici.  

Tale schema sanzionatorio, naturalmente, scardina il regime di rigida separazione tra le sanzioni civili e quelle penali, che a parere di molti maestri della responsabilità civile costituisce una conquista dell’occidente moderno.

Allo stesso tempo, tuttavia, è pacifico che tale scelta di divisione non è, nel nostro ordinamento, prescritta da alcuna norma di rango superiore all’art. 185 cod. pen. e che, pertanto, il legislatore può derogare a tale separazione, se le circostanze lo richiedono, e prevedere una pena di diritto privato, come d’altronde era nel diritto romano delle origini.

È un fatto, in ogni caso, che nelle indennità risarcitorie previste nella nostra materia persistono tutte quelle caratteristiche che sono state individuate dalla dottrina quali caratteristiche proprie della pena privata: e cioè che all’autore dell’illecito venga imposto il pagamento di una somma di denaro ulteriore rispetto al risarcimento del danno, che essa sia posta per una finalità di deterrenza, in base ad un’esigenza pubblicistica, mediante la previsione di una prestazione prevista dalla legge e secondo criteri legali di determinazione del suo ammontare.

Affermata questa natura, tuttavia, occorrerebbe chiedersi a quali limiti essa debba intendersi sottoposta, essendo espressione della potestà pubblica, pur mediata dall’iniziativa del privato.

A questa domanda, indirettamente, hanno offerto una risposta le sezioni unite della Corte di Cassazione nella sentenza 16601/2017, che ha ritenuto accoglibili nell’ordinamento italiano le sentenze straniere che comminano punitive damages.

Le Sezioni Unite, in quella occasione, chiarivano che i danni punitivi sarebbero accoglibili nel nostro ordinamento nella misura in cui le leggi straniere accordino limiti assimilabili a quelli che la nostra Costituzione avrebbe imposto alla legge interna e, quindi, essenzialmente che sia applicato il principio di legalità come declinato negli artt. 23 e 25 della Costituzione.

Così, allo stesso modo non potrebbero che essere legittime pene private previste per legge nel diritto interno, con la sola precisazione che il giudizio di attuazione delle sanzioni sarebbe giudizio di applicazione della legge e quindi soggetto a controllo di legittimità in Cassazione ex art. 360, n. 3, c.p.c.

È necessario, quindi, perché una pena privata sia legittima, che la legge ne determini l’ammontare e i criteri di commisurazione, proprio come nelle indennità risarcitorie già in vigore nella nostra materia.

La conclusione è che il caos che ha generato queste indennità, grazie a qualche mano invisibile, ritrova in questa ricostruzione una sua armonia ed il successo nel contezioso delle indennità-risarcitorie celebra la riuscita del nuovo sistema sanzionatorio, che risulta ben più idoneo a fornire una tutela ai lavoratori rispetto al tradizionale sistema di responsabilità civile, con il quale oramai non ha quasi nulla a che spartire.

Riccardo Fratini

Lascia un commento

Torna in alto
Chiama Ora