Private enforcement

Private enforcement è apparso per la prima volta con il titolo “Il ruolo del cittadino nella tutela dei beni sociali all’interno del sistema giuridico”  sulla rivista Nazione Futura nel gennaio 2018. Nazione Futura è un trimestrale di approfondimento politico, economico e culturale prodotto dall’omonima associazione culturale ed edito da Giubilei Regnani. Ripropongo qui il testo, sperando che l’editore non me ne voglia.

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Ogni tesi, che abbia la necessità di essere sviluppata brevemente merita, per lo meno, che chi la propone renda chiaro da subito al lettore quali siano gli assiomi dal quale parte la trattazione.

Il primo assioma consiste nella concezione individualista dell’essere umano. Per individuale non si vuole intendere monadico o isolato, ma solo che ciascun soggetto può porre in essere solo condotte individuali, più o meno consapevoli, e che tutte le strutture sociali, economiche e politiche che esistono sono il prodotto volontario o involontario di queste condotte individuali, che si sommano in modo del tutto imprevedibile fino a formare quel complesso sistema di relazioni e rapporti che sono oggetto di studio delle scienze sociali. La conseguenza logica di questo assioma è che l’uomo è innanzitutto intrinsecamente libero, anche se la sua libertà può essere senza dubbio condizionata dalla sua storia personale e dal suo ambiente, e che ogni scienza sociale non può prescindere dalla considerazione di questa elementare verità: che tutto dipende, anche se del tutto imprevedibilmente, da quello che uno o più soggetti hanno scelto di fare o non fare in un determinato momento.

Il secondo assioma, che è conseguenza del primo, consiste nella convinzione che la responsabilità sociale di un soggetto debba essere il necessario contrappeso della sua libertà, che ciascun soggetto, almeno in linea di principio, dovrebbe essere consapevole dell’impatto delle sue azioni sulla comunità e, quindi, potrebbe essere chiamato a rispondere dell’effetto che queste azioni provochino nell’ambiente in cui vive.

Di questi due assiomi non si darà alcun altra spiegazione che la breve descrizione appena enunciata, perché si ritiene che essi siano da considerare solo come premessa al discorso che si va a svolgere e che riguarda la responsabilità sociale dei cittadini.

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Nella Repubblica Italiana, a causa di fattori storici e culturali, ha sempre albergato la convinzione che fosse un obbligo degli organi di governo (Stato, magistratura, pubbliche amministrazioni) quello di vigilare sulle condotte dei cittadini e di assicurarsi che tutti si attenessero alle regole e ai comportamenti che la società riteneva “doverosi” (public enforcement). Questa convinzione è chiaramente andata scemando negli ultimi due decenni, in particolare dopo l’avvento dei social media. Il popolo italiano ha lentamente perso la fiducia nelle proprie istituzioni e questo è avvenuto, senza dubbio, per l’incapacità assicurare una società ordinata da regole effettive, in cui non si abbia la sensazione, che invece è presente e diffusa, che quasi convenga o sia normale non rispettare questo insieme di regole.

Negli ultimi vent’anni il popolo ha chiaramente manifestato con il voto il suo rigetto per la politica e nei sondaggi la fiducia nella magistratura, che era altissima al termine della prima repubblica, è andata diminuendo davanti ai troppi personalismi e alla concentrazione dei magistrati su questioni a volte distanti dalla sensibilità reale. Si è sviluppata una società sempre più disordinata, in cui l’autorità risulta sostanzialmente assente, se non per certe frange della società “bene”, ed il processo non riesce a gestire le fasi patologiche dei rapporti tra i soggetti. Il nostro è diventato così, lentamente, l’unico paese al mondo in cui, quando qualcuno pretende qualcosa da un altro ritenendolo giusto o doveroso, troppo spesso si sente rispondere “e allora fammi causa”, confidando nella totale inefficienza ed incertezza del sistema sanzionatorio, che risulta sempre più incapace di far rispettare i diritti e di “punire i colpevoli” nei casi in cui questo di riveli necessario. Allo stesso modo la minaccia “chiamo la polizia” risulta sostanzialmente irrisoria, e non solo per i ben noti tempi di risposta, ma anche perché, anche se preso, il criminale crede di ricevere poca o nessuna punizione.

In tutte e due le affermazioni, in realtà, non importa tanto quale sia l’entità delle pene stabilite dalla legge o l’effettiva possibilità nel caso concreto per la parte lesa di ottenere una tutela davanti ad un giudice, ma piuttosto la rappresentazione che l’uomo comune si fa di questo rischio. Si crede di poter fare tutto, e questo soprattutto con riguardo a quei piccoli sgarbi della vita ordinaria che, pur non provocando un grande danno e quindi non attirando le attenzioni delle autorità, generano il quotidiano dissapore che si sente sempre crescente nelle periferie sociali e territoriali.

A un clima simile si sarebbe potuto rispondere, come forse stava iniziando ad accadere all’inizio del nuovo millennio, con la totale sfiducia e chiusura alla partecipazione alla comunità politica da cui ci si sentiva traditi.

Invece, il popolo italiano ha risposto in un altro modo

In politica, almeno, sta rispondendo in un modo inaspettato, e cioè con un rinnovato moto di partecipazione alla creazione di “un’altra politica”, che sia in grado di fare un lavoro migliore della precedente. La nascita di nuovi movimenti e la reinterpretazione di altri, ha scardinato le categorie della politica tradizionale e qualunque sia l’opinione che si possa avere a questo riguardo, non si potrà negare il fatto che il nuovo modo di fare politica ha saputo interpretare un nuovo bisogno: il bisogno di essere presenti nella gestione delle questioni pubbliche. Sono cittadini di ogni parte politica che sono d’accordo su un’unica istanza: quella di voler essere loro i protagonisti di una nuova gestione dei problemi, di volersene occupare in prima persona, di non voler più delegare ad altri le decisioni, di voler essere informati continuamente e su tutto attraverso i social o la rete, di voler dire sì o no, almeno, e se possibile di più.

Insomma è un popolo vivo ed appassionato alla vita democratica, di sicuro quello con il più alto livello di scolarizzazione mai visto nel Bel Paese e che vuole partecipare alla cosa pubblica e migliorare la Nazione.

L’Italia che vorrei asseconda questo desiderio ben oltre la politica. La nostra Costituzione infatti non era affatto disegnata per essere solo e monoliticamente la base del sistema statalista di public enforcement ed, anzi, spingeva il legislatore a considerare la possibilità di una “partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia” (art. 102, c. 3, Cost.) e di “ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli”(art. 106, c. 2, Cost.). Fino ad oggi queste parole sono restate lettera morta, ma oggi potrebbe non essere più così. Oggi si potrebbe arrivare a parlare senza timore di avere uno Stato autenticamente liberale, in cui il popolo possa avere il controllo elettivo sull’operato dei magistrati, magari con un’elezione di ritenzione dopo un certo numero di anni di lavoro, in cui l’imputato o l’attore, nel processo, possano scegliere di optare per un processo con giuria quando preferiscano essere giudicati da una giuria di pari invece che da un giudice terzo e imparziale, ma che magari appartiene ad una esperienza sociale molto diversa dalla propria, in cui i cittadini a cui un’impresa abbia procurato un piccolo danno vendendo loro un prodotto difettoso possano agire contro di essa con un’azione di classe efficace e vedere punite con un serio danno punitivo le condotte di chiunque ponga in essere un illecito con esplicito disprezzo dei diritti degli altri. Questa è l’Italia che vorrei, un’Italia più libera e con più responsabilità, in cui il ruolo dei cittadini è anche far rispettare le regole lì dove il controllo dello Stato non arriva (private enforcement).

Riccardo Fratini

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