Trascrivo di seguito il testo della relazione pronunciata all’incontro di Roma del 30 novembre 2019 tra i promotori del “Manifesto Zamagni” per la Costruzione di un Soggetto Politico “Nuovo” d’ispirazione Cristiana e Popolare. Ho provato a dare spunti per un’economia libera e inclusiva, che sia davvero propulsiva di uno sviluppo.
Spunti per un’idea di sviluppo inclusivo.
Riccardo Fratini, avvocato e dottore di ricerca in diritto del lavoro.
Inizio ringraziando tutti gli amici che sono venuti qui oggi da ogni parte d’Italia per partecipare ai lavori di questa giornata. L’intenzione, come si è già detto, non è quella di ricostruire un passato ormai concluso, ma piuttosto quella di dare occasione ad un popolo, che interviene qui oggi, di rivendicare l’indipendenza della propria storia e del proprio pensiero. L’impegno del popolo che si ritiene motivato dal proprio credo non è affatto concluso, ma continua a rappresentare in molte realtà sociali, economiche e culturali un modo diverso di guardare ai problemi delle persone, che si contrappone ad una visione disumana, economicistica o massificata, che guarda solo ai cittadini come numeri di una statistica.
Il mio compito oggi sarebbe quello di dare un’idea della nostra visione di sviluppo per il futuro, ma purtroppo nel poco tempo a mia disposizione, mi sarà possibile dare al massimo qualche spunto, senza pretesa di completezza, per lasciare poi a Voi la parola sulla declinazione di queste suggestioni, che costituiscono solo alcuni riferimenti da cui partire. Prima di passare agli spunti, però, vale la pena di precisare che, nonostante ci sentiamo diversi dalle forze che individuano nella violenza morale o verbale la soluzione per cambiare lo stato delle cose, le nostre proposte hanno il dovere di essere in qualche modo rivoluzionarie, perché tali sono le idee che le muovono, e così saranno i suggerimenti che proverò a dare: moderate nella forma, ma immoderate nella sostanza.
La prima suggestione riguarda la nostra scelta di campo, che da sempre coinvolge la cultura della dignità della persona, che per noi è la bussola di ogni scelta ed il timone del progresso. Già in passato non ci siamo arresi ad accettare quelle idee che vedevano nella persona solo un ingranaggio di un sistema economico collettivistico. La ragione di questa scelta di campo risiedeva nel fatto che la dignità umana resta lettera morta se non si declina nella possibilità per ciascun componente di una società organizzata di compiere le proprie scelte, di valorizzare le proprie inclinazioni, di inseguire i propri sogni e ricercare la felicità. Felicità che, secondo il nostro credo morale, non si declina solo nella massimizzazione del proprio benessere economico, ma certamente si nutre anche di questa componente, almeno nella misura in cui questo consenta a ciascuno di inseguire i propri sogni, compiere i propri studi ed intraprendere le iniziative che ritiene più giuste secondo il proprio schema morale. Da qui l’opzione per un’economia libera, che, da un lato, è il presupposto imprescindibile della libertà politica e dall’altro è, in uno stato di diritto, il vero motore dello sviluppo. A creare lo sviluppo, quindi, secondo la nostra idea, non sono le leggi e le manovre di governo, ma è l’iniziativa dei cittadini, che si accorgono dei bisogni dei propri vicini e vi provvedono, creando lavoro, benessere, maggiori scambi e quindi la crescita. Alle leggi, invece, spetta il compito di dare una regola ai comportamenti degli uomini, in modo tale che siano diretti al miglioramento non solo della propria condizione, ma anche della comunità in cui viviamo. Da questa concezione viene la nostra scelta di campo per un’economia sociale di mercato, che si basi sulla libertà dei soggetti, ma che allo stesso tempo contempli la finalità sociale delle loro azioni, regolandone l’operato per garantire da un lato un sistema di leale concorrenza e dall’altro che le azioni abbiano esternalità positive per la comunità.
Può sembrare ridondante, nel 2019, parlare di questi concetti dopo che le esperienze collettivistiche sono rovinosamente terminate oltre trent’anni fa, ma lo sembra certamente meno dopo i dati diffusi in questi giorni dalla Fondazione Heritage, che annualmente pubblica una statistica chiamata index of economic freedom[1] (Indice di libertà economica), che vede l’Italia all’ottantesimo posto nel mondo quanto a libertà economica. Ciò significa, per intenderci, che secondo questi osservatori internazionali, il nostro paese dal punto di vista economico è meno libero del Marocco, delle Filippine, del Botswana e della maggior parte dei paesi dell’est, a cui nel secolo scorso i miei genitori si riferivano come “paesi comunisti“. Le ragioni della classificazione così bassa sono ben chiare nello studio: una tassazione complessiva media molto elevata (42,9%), uno Stato spendaccione, che sperpera una somma pari a circa la metà del prodotto interno lordo (49,5%) e una giustizia inefficiente, che comporta costi sociali a danno della comunità pari a circa 60 miliardi di euro, secondo la valutazione dello studio. Questi dati ci portano a ribadire che la preoccupazione circa l’ingerenza eccessiva dello Stato nelle vite dei cittadini, in questo paese, è tutt’altro che eccessiva. Viviamo in una comunità in cui il peso del governo sulle spalle dei cittadini è così elevata da stritolare la fiducia nel futuro e questo senza che a questa spesa corrispondano servizi efficienti che garantiscano quelle condizioni di giustizia e stabilità che consideriamo indispensabili ad uno sviluppo reale. Il primo spunto è quindi il binomio “libertà e responsabilità“, che sono due facce della stessa medaglia imprescindibili per lo sviluppo di un Paese. Infatti, gli ingredienti dello sviluppo sono la fiducia nel futuro e negli altri, ma non può esserci fiducia se le autorità che governano un Paese stritolano i cittadini con le tasse senza fornire loro quei servizi essenziali che con esse si dovrebbero finanziare: una giustizia efficiente in tempi ragionevoli e un’istruzione qualificante, capace di abbattere le barriere sociali che limitano le persone nelle proprie aspirazioni.
Il secondo spunto riguarda il lavoro. Viviamo in un mondo in cui sempre in modo crescente si critica il sistema dell’economia libera senza comprendere quanto essa sia diversa dal sistema capitalistico delle origini e dalla tradizionale contrapposizione tra capitalisti e lavoratori. Le modifiche del sistema, invece, ci sono e sono profonde. Sono dovute, tra le molte cause, alla progressiva e sempre crescente automazione delle mansioni ripetitive[2], con la sparizione progressiva dei lavori che tradizionalmente costituivano la base del lavoro subordinato (operai, lavoro in catena di montaggio). La questione fa spavento. Si ha la sensazione che le macchine ci ruberanno il lavoro, dato che l’intelligenza artificiale compie sempre più passi in avanti ed è ormai in grado di sostituire mansioni ben più complesse di quelle che un tempo consideravamo davvero ripetitive. Si sente parlare di robot che fanno le pulizie in completa autonomia, che effettuano ricerche, che compiono rilevazioni autonome nel campo dell’agricoltura, che analizzano documenti e banche dati e compiono calcoli complessi. Questa prospettiva, invece, non dovrebbe renderci spaventati, ma entusiasti di un mondo in cui un essere umano non sarà più costretto a passare la maggior parte del proprio tempo a compiere un’attività, che potremmo senza problemi definire noiosa e frustrante. Il tema qui non è la sostituzione del lavoro come attività ripetitiva, ma la preoccupazione che deriva dal venir meno della possibilità, per i lavoratori, di procacciarsi i mezzi di sostentamento attraverso quell’attività. Allora il problema non è quello di conservare il lavoro con un atteggiamento antiprogressista e contrario all’innovazione, ma trovare un’altra formula con cui il lavoratore possa partecipare alla ricchezza prodotta con quell’attività. Ebbene noi possiamo senza dubbio affermare che nessuna cultura ha saputo declinare meglio dell’economia civile e della cooperazione il tema della partecipazione di tutti gli agenti alla ricchezza prodotta dalle attività economiche. Per superare i timori, infatti, non occorre un atteggiamento passatista, ma un ripensamento di quelle strutture economiche che mediano la ricchezza prodotta dalle attività economiche. Il secondo spunto, quindi, è la vera e propria sfida di realizzare un nuovo modo di guardare al sistema di economia libera, che realizzi un modello di capitalismo inclusivo, mediato dalla libertà e dalla democrazia economica, in cui i cittadini possano compartecipare alle imprese, dividendo le sorti dell’impresa ed essendo compartecipi del loro andamento, pur nel rispetto delle differenze di responsabilità e di impegno tra i vari partecipanti. Un modello simile veniva già prospettato in Germania attraverso la partecipazione dei lavoratori nella gestione delle imprese[3] e dall’economista Louis Kelso[4], che per primi avevano paventato una progressiva necessità di superare la concezione contrapposta di interessi tra capitale e lavoro, proprio con l’intento di superare il problema della giusta divisione delle risorse tra gli uomini.
Ciò, ovviamente, tra l’altro, non significa che il lavoro sparirà come fonte di realizzazione umana e sociale per i membri di una comunità, ma soltanto che esso cambierà volto. Con la fine delle mansioni ripetitive, quello che verrà in rilievo nel mercato del lavoro non sarà più il tempo dei lavoratori e le loro ore passate a lavorare in un determinato luogo, ma la loro professionalità, intesa come capacità di comprendere, sviluppare e risolvere problematiche (siano esse in campo tecnico o umanistico). La seconda sfida in questo campo, quindi, consiste nel dotare i futuri lavoratori di quelle conoscenze e competenze che potranno distinguerli sul campo del mercato del lavoro. In questo senso, lo sviluppo del paese, paradossalmente, passa necessariamente attraverso la sua cultura, intesa come insieme delle conoscenze e competenze dei suoi cittadini, che possono costituire il fattore risolutivo di problemi posti dalla realtà. La tradizione della formazione professionale, invece, risiedeva nell’insegnare mansioni identiche ad un numero elevato di soggetti, con l’idea, corretta nel mondo industriale delle origini, che essi, una volta acquisite quelle conoscenze, sarebbero stati valutati più per la loro disponibilità a compiere l’attività per un certo tempo che non per la loro particolare competenza specifica. L’innovazione tecnologica, invece, sta determinando un’inversione di tendenza. In campo di formazione, l’eguaglianza non è più una virtù, mentre la specializzazione e la competenza individuale rappresentano la chiave dello sviluppo.
Il secondo spunto, quindi, risiede in due passaggi necessari in modo imprescindibile allo sviluppo del paese: prima di tutto è necessario ripensare il sistema dell’istruzione e della formazione, per dirigerlo a valorizzare le inclinazioni dei singoli, le loro passioni, la loro capacità personale, evitando la massificazione, cercando il più possibile, nel processo, di favorire la crescita di persone nella loro diversità, che sarà la loro ricchezza in un mercato non delle ore di lavoro ma delle competenze. Allo stesso tempo, si dovranno formare membri consapevoli della comunità, così da favorire la partecipazione sempre più diffusa alle attività economiche non più di lavoratori, ma di co-partecipanti dell’attività stessa, realizzando quel modello di capitalismo inclusivo e partecipativo di cui sono stati antesignani i movimenti cooperativi e le realtà del terzo settore.
Queste sono solo due delle
mille suggestioni che si potrebbero dare sull’idea di sviluppo che auspichiamo
e sono, ovviamente, da sole insufficienti a risolvere i molti problemi posti
dalla realtà. Spero però servano a stimolare la discussione, che è la vera
ragione della nostra permanenza qui. Ora, la parola a Voi, che tanta strada avete
fatto per intervenire oggi.
[1] 2019 Index of economic freedom, pubblicato sul sito della fondazione (https://www.heritage.org/index/). I dati sull’Italia sono presenti nella sezione dedicata al nostro paese.
[2] Per una visione del problema si veda il contributo di Morgan, B., Robots Will Take Our Jobs And We Need A Plan: 4 Scenarios For The Future, sulla rivista Forbes, 5 settembre 2018, disponibile in www.forbes.com;
[3] Si veda in proposito il lavoro del prof. Alfred Muller Armack, pubblicato in Italia in Thesing, J., Economia Sociale di Mercato, con prefazione di A. Fanfani, Ed. Telesio, Torino 1979;
[4] Si allude ai testi dell’autore, dai titoli “The Capitalist Manifesto” (1951)e “The New Capitalists” (1977), entrambi pubblicati sul sito dell’istituto Kelso (www.kelsoinstitute.org)