Lavoro nella scuola: 24 CFU e abilitazione all’insegnamento

Il lavoro nella scuola è soggetto a continue modifiche. Di recente il d.lgs. 59/2017 ha introdotto il requisito dei 24 CFU per l’accesso al concorso ordinario, mentre la legge di delega del 2015 continua a prevedere il requisito dell’abilitazione all’insegnamento. Il dibattito è acceso sul senso di questi requisiti ed in particolare ci si chiede se il possesso dei 24 CFU si possa ritenere equivalente all’abilitazione.

1 – L’ASSETTO NORMATIVO DEL SISTEMA SCUOLA

Gran parte dei problemi che si tenteranno di analizzare nel lavoro che segue costituiscono la conseguenza della natura stessa dell’ordinamento di legislazione scolastica, che soffre dei contrasti dovuti alla forte tensione che penetra questo particolare settore. Da un lato, infatti, l’intervento pubblico, che si accompagna inevitabilmente alla spesa gravante sul bilancio dello Stato, costringe il legislatore ad effettuare continuamente un lavoro di bilanciamento tra l’esigenza del risparmio e l’esigenza dei soggetti che sono operatori del settore e che dipendono dai bilanci pubblici per il proprio sostentamento. Dall’altro lato, in più, rileva l’alto ruolo istituzionale e sociale che il settore scolastico ha per oggetto della propria attività: la società guarda con grande attenzione a come si allevano i propri figli e, di conseguenza, chiede alla politica ed all’amministrazione pubblica in questo settore un grado di efficienza ben maggiore di quello che si pretende in altri settori affidati al pubblico servizio.

Per effetto di questi, e di molti altri fattori, la legislazione scolastica si è sempre caratterizzata per la sua profonda mutevolezza, che tenta, con cadenza quasi annuale, di bilanciare i vari fattori in gioco, producendo come effetto collaterale, ma per niente irrilevante, una normazione alluvionale, entro la quale districarsi non è affatto facile, nemmeno per gli operatori del settore che sono addetti alla redazione di questa legislazione in continuo mutamento.

La questione che si intende discutere ora, infatti, è con ogni probabilità il frutto della dimenticanza, ovvero, al massimo, di una oculata frizione tra la duplice esigenza di contenere la spesa pubblica, rendendo complesso a chi consegue un titolo di studio l’accesso al percorso scolastico, e quella di consentire allo stesso modo ai docenti ben qualificati che stanno oggi uscendo dalle università un accesso rapido e sicuro al ruolo ed all’insegnamento, con l’intento non troppo recondito di sostituire progressivamente la classe di docenti ora in ruolo.

Nel 2015 , la Legge aveva affermato chiaramente il principio secondo cui ai concorsi pubblici di assegnazione di una cattedra in ruolo potevano accedere “esclusivamente i candidati in possesso del relativo titolo di abilitazione all’insegnamento e, per i posti di sostegno per la scuola dell’infanzia, per la scuola primaria e per la scuola secondaria di primo e di secondo grado, i candidati in possesso del relativo titolo di specializzazione per le attività di sostegno didattico agli alunni con disabilità” .

Questo principio cristallizzava l’idea che un giovane, che si fosse laureato presso le Università, secondo il percorso di studi ritenuto necessario per il conseguimento di una laurea abilitante per una delle classi di concorso, non potesse accedere all’insegnamento subito dopo la laurea, ma dovesse prima frequentare un percorso di inserimento e tirocinio, che successivamente gli consentisse l’accesso alla professione di insegnante, mediante il conseguimento del titolo di abilitazione.

Alla stessa conclusione infatti approdava la disciplina dettata in quella stessa Legge per le graduatorie d’istituto, che avevano affermato che, “a decorrere dall’anno scolastico 2019/2020, l’inserimento nelle graduatorie di circolo e di istituto può avvenire esclusivamente a seguito del conseguimento del titolo di abilitazione” .

Ufficialmente, l’obiettivo della richiesta di un titolo abilitante consisteva nella necessità per il personale docente di acquisire “delle competenze necessarie allo sviluppo e al sostegno dell’autonomia delle istituzioni scolastiche” , ma non era un mistero già allora che a questa esigenza si affiancava quella di arginare l’accesso alla professione di docente a coloro che non intendessero fare questo lavoro con continuità e dedizione, sia in modo da aumentarne la competenza, sia in modo di diminuire in assoluto il numero dei candidati, così da diminuire l’emergenza precariato che si è configurata nel settore dopo la crisi del 2008.

La questione si spostava, dunque, sulle modalità di conseguimento di tale abilitazione all’insegnamento, che poteva essere acquisita, in via ordinaria , mediante la partecipazione ad un tirocinio formativo attivo (TFA), consistente in un corso di preparazione all’insegnamento riservato ai soggetti che avevano conseguito i titoli necessari per ciascuna classe di concorso, a conclusione del quale si conseguiva il titolo di abilitazione per la scuola secondaria di primo grado in una delle classi di abilitazione previste dal decreto del Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR). Il TFA si concludeva con un esame di abilitazione all’insegnamento, al termine di corsi a numero chiuso con test di accesso, i cui posti erano stabiliti a livello regionale secondo le necessità per ciascuna classe di concorso.

Il TFA, però, che risulta ancora dal sito MIUR come modalità unica di acquisizione dell’abilitazione all’insegnamento, si svolgeva per l’ultima volta nel 2014  e da allora non si consentiva abilitazione all’insegnamento per questa via, salvo in ogni caso ogni diritto maturato secondo le modalità alternative .

Al di là di quest’ultima considerazione, dalla Legge del 2015 usciva un sistema che chiaramente indicava nell’abilitazione il requisito essenziale ad ogni fine, sia ai fini del concorso che ai fini dell’inserimento in graduatorie d’istituto  (GI).

Come noto, queste ultime sono state introdotte nel 2007  per indicare la successione degli aventi diritto a seconda dei titoli conseguiti all’assegnazione di supplenze in ambito provinciale.

Secondo la disciplina delle GI, per ciascun posto di insegnamento viene costituita una graduatoria distinta in tre fasce, da utilizzare nell’ordine, composte come segue:

I Fascia: comprende gli aspiranti inseriti nelle graduatorie ad esaurimento per il medesimo posto o classe di concorso cui è riferita la graduatoria di circolo e di istituto;

II Fascia: comprende gli aspiranti non inseriti nella corrispondente graduatoria ad esaurimento forniti di specifica abilitazione o di specifica idoneità a concorso cui è riferita la graduatoria di circolo e di istituto;

III Fascia: comprende gli aspiranti forniti di titolo di studio valido per l’accesso all’insegnamento richiesto.

Queste fasce, originariamente, dovevano essere tutte aggiornate con cadenza triennale, in occasione della programmazione progressiva del fabbisogno di personale docente, ma un decreto del 2015 , nella nuova logica della preponderanza dell’abilitazione sugli altri titoli, consentiva l’iscrizione in seconda fascia delle GI due volte l’anno, in corrispondenza del 1 febbraio e del 1 agosto.

Scattava così la corsa alle abilitazioni, che tuttavia restava frustrata dalla mancata emanazione da parte del MIUR dei bandi per TFA, che da quel momento in avanti è stato attivato per il solo corso di sostegno.

La successiva riforma, contenuta nel D.lgs. 59/2017 , si poneva ufficialmente in linea con la L. 107/2015, ma nella sostanza ne mutava le finalità e la disciplina, introducendo una serie di modifiche significative.

Il decreto legislativo citato, infatti, era formalmente emanato in attuazione della delega contenuta nella legge del 2015  e quindi nel solco da essa già tracciato, nonché nel rispetto dei criteri e nei limiti in essa delineati, tra cui rientrava la previsione di un percorso “unico per accedere all’insegnamento nella scuola secondaria statale, anche per l’effettuazione delle supplenze” e “l’introduzione di una disciplina transitoria in relazione ai vigenti percorsi formativi e abilitanti e al reclutamento dei docenti nonché in merito alla valutazione della competenza e della professionalità per coloro che hanno conseguito l’abilitazione prima della data di entrata in vigore del decreto legislativo” .

Tuttavia, il sistema delineato dal decreto del 2017 si scostava in parte dalle affermazioni nette di esclusività dei percorsi di abilitazione previste dalla legge di delega, arrivando invece a consentire l’accesso al concorso a coloro che erano in possesso dei requisiti del titolo di studio relativo al settore concorsuale di riferimento ed, in aggiunta, di 24 crediti formativi universitari (CFU)  acquisiti in forma curricolare, aggiuntiva o extra curricolare nelle discipline antropo-psico-pedagogiche e nelle metodologie e tecnologie didattiche .

L’abilitazione restava invece solo come requisito alternativo, considerato quindi di valenza equipollente per i possessori dei 24 CFU, mentre era requisito essenziale solo per gli insegnanti tecnico pratici (ITP) , che tuttavia hanno una storia molto complessa e di lungo corso, che andrebbe valutata in separata sede.

2. LA DUPLICE VALENZA DEL CONCETTO DI “ABILITAZIONE” ALL’INSEGNAMENTO E I 24 CFU.

Come si sarà notato, il termine “abilitazione” viene in rilievo in due distinti momenti nella disciplina ora esposta: nel primo caso, per definire i requisiti di accesso al concorso, mentre, nel secondo caso, l’attribuzione della qualifica di abilitato è necessaria ai fini dell’iscrizione alle graduatorie d’istituto di II fascia, che si sono descritte sopra e di cui si era già detto che sono riservate ai docenti abilitati.

Il fatto che il medesimo termine sia utilizzato in entrambe le elencazioni di requisiti (per il concorso e per l’iscrizione in II fascia) deve certamente far ritenere che il requisito sia il medesimo per l’uno e per l’altro caso.

La contraddizione risiede nel fatto che la legge prevede l’abilitazione come requisito essenziale per l’iscrizione ad entrambi i casi (art. 1, c. 107 e 110 L. 107/2015), ma il legislatore delegato ha poi deviato parzialmente da tale criterio direttivo, affermando che l’accesso al concorso è consentito in presenza di abilitazione o, in alternativa, del titolo sommato ai 24 CFU (art. 5 D.lgs. 59/2017), il che crea il paradosso per cui, nonostante il requisito previsto dalla legge del 2015 per l’iscrizione al concorso e alla II fascia sia in entrambi i casi l’ “abilitazione”, di fatto ad oggi un cittadino in possesso dei 24 CFU e della laurea può partecipare al concorso, ma non iscriversi nella II fascia.

La confusione sulla necessità o meno dell’abilitazione ai fini del concorso scardinava così tutta la pianta organica del d. lgs. 59/2017.

Un elemento per la comprensione, tuttavia, è dato nella disciplina transitoria dettata dall’art. 17 del d.lgs. 59/2017  per il reclutamento provvisorio del personale, secondo cui i posti liberi dovevano essere coperti al 50% mediante la costituzione di graduatorie di merito per concorso, che, per gli anni a partire dal 2018 in poi, si sarebbe svolto su base regionale con accesso riservato ai docenti in possesso di titolo abilitante all’insegnamento nella scuola secondaria o di specializzazione di sostegno, in deroga al requisito di cui all’articolo 5, comma 1, lettera b) e articolo 5, comma 2, lettera b) (e cioè senza consentire l’accesso ai possessori di 24 CFU non abilitati). Infatti, coerentemente, il D.M. 15 dicembre 2017  prevedeva quale requisito, per questo concorso volto a coprire transitoriamente il fabbisogno di personale, il ” possesso del titolo di abilitazione all’insegnamento” conseguito entro il 31 marzo 2017.

Curioso è il fatto che, secondo la disciplina transitoria, il personale così reclutato (in teoria già abilitato e quindi che dovrebbe essere di immediata operatività), doveva essere inserito in un percorso di formazione iniziale, tirocinio e inserimento nella funzione docente (FIT) di durata triennale, che tuttavia ha avuto vita davvero breve, visto che è stato eliminato già nel 2018 , conservandolo in favore dei soli soggetti già avviati al percorso nell’anno trascorso dalla riforma.

Esaurita la procedura transitoria, invece, il requisito previsto dall’art. 5, lettere b), tornava in gioco come alternativa all’abilitazione, che invece era stata richiesta dalla legge di delega del 2015 come modalità unica di accesso. Inoltre, le nuove norme contenute nel D.L. 29 ottobre 2019, n. 126 , che ha disposto il concorso per il reclutamento del personale docente nell’anno 2020 sono arrivate al paradosso di affermare che il concorso ha, per i non vincitori, che siano ritenuti idonei, un valore abilitante, così ribaltando completamente lo schema proveniente dalla legge del 2015, dove l’abilitazione consisteva in un presupposto necessario dell’iscrizione alle procedure selettive, mentre ora, pur nella vigenza di quella norma, si è giunti a rendere l’abilitazione un effetto dell’idoneità al concorso.

3. INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALMENTE ORIENTATA.

Occorre, quindi, coordinare le varie disposizioni sul piano interpretativo, per evitare che si debba giungere ad una pronuncia di incostituzionalità per eccesso di delega o irragionevolezza del d.lgs. 59/2017. Infatti, l’ordinamento non può certo tollerare (nella vigenza sia dell’art. 1, c. 110 della L. 107/2015, che delle norme sul valore abilitante dell’idoneità conseguita con il concorso) che lo stato di abilitazione all’insegnamento sia il requisito necessario per l’accesso al concorso e l’effetto dell’idoneità conseguita ad esso.

La questione è stata resa possibile solo dalla mediazione fatta alle legge di delega dal D.lgs. 59/2017, che ha previsto la possibilità per i possessori di un titolo idoneo e di 24 CFU di accedere al concorso, anche senza aver frequentato quel TFA, o un diverso percorso abilitante, che la legge prevede (ma non è stato mai emanato negli ultimi anni il bando relativo) come requisito per l’abilitazione. Da qui l’idea che l’abilitazione, per questa categoria di soggetti, si debba conseguire attraverso il concorso stesso e sia attribuita come effetto della procedura agli idonei non vincitori.

Tuttavia, tale costruzione, che pure avrebbe senso, sconta due difetti che appaiono difficili da superare: da un lato, prima di tutto, un’interpretazione siffatta verrebbe a significare che il d.lgs. 59/2017 ha tradito il mandato che al legislatore era stato affidato dalla Legge di delega, che chiaramente aveva affermato l’impossibilità di accesso al concorso in difetto di requisito dell’abilitazione; dall’altro lato, in secondo luogo, significherebbe che le norme successive, per prevedere che l’abilitazione sia l’effetto e non il requisito del concorso, dovrebbero prevedere un’abolizione della norma stabilita nel 2015, che invece non è disposta.

Con riguardo a quest’ultimo aspetto, invece, sembrerebbe che il D.L. del 2019, di cui si attende l’esito in sede di conversione, voglia conservare il requisito dell’abilitazione in via generale, in particolare quando afferma che è “ammesso a partecipare alla procedura, unicamente ai fini dell’abilitazione all’insegnamento, chi è in possesso del requisito di cui al comma 5, lettera a) [cioè solo del titolo di studio, nda], tramite servizio prestato presso le scuole paritarie del sistema nazionale di istruzione” , mentre non si spiega l’affermazione che segue immediatamente, secondo cui “restano fermi gli ulteriori requisiti di cui al comma 5”. L’affermazione è oscura perché la norma avrebbe senso solo se pensata come procedura straordinaria pensata per i docenti che non siano in possesso dei 24 cfu né siano abilitati all’insegnamento, perché questi sono i due requisiti alternativi previsti dal D.lgs. 59/2017 a cui il D.L. fa riferimento. Se invece fossero abilitati, non avrebbero bisogno di partecipare alla procedura “ai soli fini dell’abilitazione”, mentre avrebbero interesse se fossero in possesso solo dei 24 CFU, ma allora non si spiegherebbe il riferimento, nel primo periodo, al solo requisito di cui alla lett. a) dell’art. 5, ossia al titolo di studio, unito all’insegnamento in scuole paritarie.

La conclusione più logica, che deriva da un’interpretazione sistematica del sistema, quindi, è che il D.L. 2019 stia delineando una procedura straordinaria (come infatti è più volte enunciato nel decreto), riservata a categorie di soggetti particolari che abbiano requisiti diversi da quelli richiesti per l’ordinaria procedura, che è ancora regolata dal D.lgs. 59/2017. Per questa procedura straordinaria, riservata a chi abbia conseguito il titolo e i 24 CFU , ma anche tre anni di servizio negli ultimi 8 anni, di cui almeno uno nella classi di concorso (CDC). Gli abilitati potranno concorrere per il posto, così come i non abilitati in possesso dei 24 CFU, che abbiano svolto servizio nella sola scuola pubblica per tre anni. Mentre i non abilitati che abbiano prestato servizio nella scuola privata potranno concorrere solo per l’abilitazione, che per questa procedura straordinaria è effetto e non requisito.

Tuttavia, la declinazione della procedura straordinaria non chiarisce l’interpretazione dell’art. 5 del d.lgs. 59/2019, che anche nella vigenza delle norme eccezionali e straordinarie del Decreto Legge, continua a contraddire la premessa contenuta nella legge di delega del 2015, che considera l’abilitazione l’unico requisito per l’accesso al concorso ordinario.

Da questa antinomia si può uscire, in definitiva, solo mediante una interpretazione costituzionalmente orientata della norma, che tenda ad evitare l’eccesso di delega. Se infatti la legge di delega pone come requisito l’abilitazione per l’iscrizione al concorso e la legislazione delegata afferma che sono requisiti alternativi per l’accesso al concorso ordinario il possesso dell’abilitazione o dei titoli rilevanti per ciascuna CDC, sommati ai 24 CFU, non si può che concluderne che l’unica interpretazione non antinomica di queste norme è che il legislatore delegato abbia considerato il conseguimento di questi crediti universitari come percorso abilitante, al termine del quale il soggetto deve ritenersi abilitato, almeno ai fini della partecipazione al concorso ordinario.

4. L’INCONFERENZA DEL DIRITTO DELL’UNIONE.

La questione, fino ad oggi, sembra essere poco trattata in sede giurisprudenziale e si è potuto rinvenire solo un provvedimento del Tribunale di Roma , che aveva giudicato il caso di una ricorrente in possesso di un titolo all’insegnamento costituito dal diploma di laurea e dai 24 CFU che chiedeva di essere inserita nella seconda fascia (II fascia) delle GI .

La ricorrente possedeva la laurea in Matematica ed aveva completato il proprio curriculum professionale con il conseguimento dei 24 Cfu in materie psico-antropo-pedagogiche e metodologie didattiche ed argomentava appunto che i propri titoli fossero “intrinsecamente abilitanti” e dovrebbero consentire l’accesso alla seconda fascia delle GI.

La sentenza, ricalcando la ricostruzione già operata nei paragrafi precedenti, argomentava che il percorso di laurea affrontato, e superato, dalla ricorrente prevedeva il conseguimento dei 24 Cfu che rappresentavano “senz’altro” il titolo di accesso ai successivi concorsi “riservati ai docenti abilitati” e che, pertanto  il D.M. 374/2017 aveva violato la legge in riferimento all’art. 1, comma 110 della legge 107/2015 e D.Lgs 59/2017 art. 5 e 17 . Il citato D.M. 374/2017 , ed il successivo DM 11 maggio 2018 e del successivo Decreto del Direttore Generale MIUR (DDG) 11 giugno 2018, dettato in tema di aggiornamento semestrale delle graduatorie di seconda fascia, all’articolo 2 rubricato “titoli di accesso alla Il e III fascia delle graduatorie di circolo e di istituto” prevedeva la riserva di accesso alla seconda fascia delle GI agli “aspiranti non inseriti nella corrispondente graduatoria ad esaurimento, che sono in possesso, relativamente alla graduatoria di circolo o d’istituto interessata, di specifica abilitazione o di specifica idoneità all’insegnamento conseguita a seguito di concorsi per titoli e/o per esami anche ai soli fini abilitanti (sono esclusi i Concorsi banditi con D.D.G. n. 82/2012, D.D.G. n. 10512016, D.D.G. n.106/2016 e D.D.G. n.107/2016) ovvero in possesso di uno dei seguenti titoli di abilitazione:

l) diploma rilasciato dalle scuole di specializzazione per l’insegnamento secondario (SSIS);

2) diploma rilasciato a seguito della frequenza dei corsi COBASLID…”

Per questa ragione la ricorrente si era trovata nell’impossibilità di essere inserita, quale docente abilitata, tra i docenti di seconda fascia, pur essendo in possesso di un (Diploma di Laurea in Matematica) e dei 24 CFU.

Tale affermazione riassume correttamente l’antinomia, ma poi non si sofferma sul rapporto di delega tra le Legge del 2015 e il D.lgs. 59/2017, preferendo invece trattare la comparazione tra i requisiti richiesti e quelli posseduti, arrivando ad affermare come “evidente che il superamento di specifici esami universitari hanno permesso alla ricorrente di conseguire tutti i 24 crediti formativi universitari richiesti dal Ministero dell’Istruzione per l’accesso ai successivi concorsi per il reclutamento del personale docente e, dunque, di acquisire la conoscenza e la preparazione della ricorrente nelle discipline didattiche e di insegnamento” e che “il programma didattico affrontato dalla ricorrente fa ritenere, insomma, che la stessa è in possesso di un bagaglio culturale adeguato allo svolgimento della professione di docente”.

Secondo la sentenza, questa argomentazione condurrebbe ad una “ridefinizione del concetto di “abilitazione” previsto dalla norma di cui alla legge 107/2015, art. 1, comma 110”.

A suffragio, il giudice cita una sentenza del Consiglio di Stato , la cui giurisprudenza, in realtà, sembra ormai ben consolidata nel non consentire deroghe, né ritenere illegittima costituzionalmente, al regime delle abilitazioni , pur non mancando qualche sentenza contraria .

5. VALIDITÀ DELLO STATUS DI ABILITATO AI FINI DELL’INSERIMENTO IN GRADUATORIA D’ISTITUTO

La sentenza, tuttavia, appare convincente quando confuta la ricostruzione secondo cui la ricorrente dovrebbe poter partecipare alla fase transitoria del concorso riservato agli abilitati, ma non accedere alle graduatorie di seconda fascia riservate ugualmente ai docenti abilitati, in quanto ciò configurerebbe una disparità di trattamento ed una negazione dell’accesso al pubblico impiego, in violazione degli artt. 3 e 97 Cost.

Questa interpretazione “costituzionalmente orientata”, sarebbe imposta, a detta del Tribunale, dalla normativa europea che non prevede alcun titolo abilitativo per insegnare, che imporrebbe al giudice di ricercare una soluzione interpretativa conforme a questa “cornice sovranazionale”. Le procedure c.d. abilitative, in quanto “mere procedure amministrative di reclutamento che consentono di programmare gli accessi”, non avrebbero valore ai fini dell’inserimento nelle fasce di istituto, mentre sarebbero rilevanti solo il titolo di studio o una determinata esperienza lavorativa.

La fonte di queste affermazioni andrebbe ricercata secondo il giudice romano nelle disposizioni dell’Unione Europea in tema di “professione regolamentata”, che pure non sono molto chiare.

Si allude infatti, esplicitamente, alle Direttive 2005/36/CE  e 2013/55/UE , che regolano il sistema generale delle professioni regolamentate nell’ambito dell’Unione Europea e dei titoli di accesso alle stesse. La Dir. 2005/36/CE impone il possesso di idonea “qualifica professionale” al fine dell’esercizio di una professione regolamentata, quale quella di docente nel sistema scolastico pubblico italiano , e tale requisito è condizione necessaria ed al tempo stesso sufficiente all’esercizio della stessa; i titoli conseguiti in Italia in quanto Stato membro dell’Unione Europea rientrano nella definizione di “titolo di formazione” e quindi di “qualifica professionale” utile all’esercizio della “professione regolamentata”.

Secondo la sentenza, i termini di “abilitazione” e/o “idoneità” non rientrano tra le definizioni adottate dalla Direttiva e dovrebbero quindi ritenersi sostituiti dalla più generale definizione di “qualifica professionale” adottata dalla normativa dell’Unione Europea, il che condurrebbe ad affermare che le procedure definite “abilitanti” dallo Stato italiano non rientrano nelle definizioni di “qualifica professionale” adottate dalla citata Direttiva 2005/36/CE poiché non rappresentano, ai sensi della stessa, una “formazione regolamentata” ma una mera procedura amministrativa appartenente all’ambito di una modalità di reclutamento attuata in forma non esclusiva dallo Stato italiano, posto che il diritto all’esercizio della professione avviene non in virtù di tali procedure, ma in virtù di idoneo titolo di accesso conseguito secondo le vigenti disposizioni di legge.

In altri termini, il titolo  coinciderebbe con la “qualifica professionale” adottata dalla normativa dell’Unione Europea.

Questa lettura, tuttavia, trova non poche contraddizioni nella disciplina a cui si riferisce. Infatti, la Dir. 2005/36/CE afferma chiaramente che l’accesso determinate professioni può essere subordinato al preventivo compimento di un Tirocinio  e, quanto esso sia previsto come nel caso del TFA per l’abilitazione, pone la sola regola del riconoscimento di quello effettuato all’estero , peraltro senza esenzione dall’esame abilitativo, qualora previsto in aggiunta.

Il fatto che la Direttiva non menzioni esplicitamente la parola “abilitazione” è parimenti falso, dato che nello stesso articolo 17bis, riservato al tirocinio, si fa riferimento alle autorità “competenti al rilascio delle abilitazioni per l’esercizio di una professione regolamentata”, che sarebbero quelle legittimate a riconoscere il tirocinio compiuto all’estero, con chiara allusione del rapporto generale nelle professioni regolamentate tra tirocinio e abilitazione.

Tornando al disposto della sentenza, secondo la corte dell’Urbe, l’articolo 49 TFUE privilegerebbe la libertà di stabilimento dei liberi professionisti e questo dovrebbe condurre alla conclusione che non si potrebbe limitare con una “mera procedura amministrativa” l’esercizio di una simile professione in possesso di tutti i titoli abilitanti ad insegnare, solo per la necessità di regolare la periodicità degli accessi alla professione di insegnante.

In questo aspetto la questione si interseca con quella relativa all’abuso del contratto a termine nel lavoro pubblico nelle scuole . Infatti, la Corte di Giustizia  ha affermato che le esigenze di continuità didattica che inducono ad assunzioni temporanee di dipendenti del comparto scuola possono costituire una ragione obiettiva di apposizione del termine, che giustifica sia la durata determinata dei contratti conclusi con il personale supplente, sia il rinnovo di tali contratti in funzione delle esigenze di continuità didattica, fatto salvo il rispetto dei requisiti fissati al riguardo dall’accordo quadro.

Tuttavia, riteneva che nel caso in esame il rinnovo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare queste esigenze abbia, di fatto, un carattere non provvisorio, ma, al contrario, permanente e durevole, e non sia giustificato .

La procedura di reclutamento, invece, non si porrebbe in contrasto con gli stessi principi, rientrando, viceversa, tra le misure volte a riformare il sistema di reclutamento dei docenti, al fine di risolvere il problema del precariato. Non si è, dunque, di fronte ad una normativa che incentiva il fenomeno del precariato, quanto piuttosto a disposizioni tese alla sua (graduale) eliminazione. La riforma della scuola, prevista dalla L. n. 107 del 2015, ha invero introdotto il piano straordinario di assunzioni, nell’ambito delle misure necessarie per adeguare l’ordinamento interno ai principi comunitari in materia di lavoro a tempo determinato, tra cui quelli derivanti dalla sentenza Mascolo citata. Più precisamente, il legislatore ha previsto una serie di misure volte ad eliminare il ricorso ai contratti a termine per la copertura dei posti in organico di diritto: a) il Piano straordinario di assunzioni, mediante il quale è possibile coprire tutti i posti in organico di diritto, mediante lo speciale meccanismo di scorrimento delle graduatorie previsto dalla L. n. 107 del 2015; b) la soppressione delle GAE a seguito del loro esaurimento; c) la previsione del sistema del pubblico concorso da espletarsi con cadenza triennale quale unico strumento per le assunzioni in ruolo del personale docente.

Dunque, la normativa in esame, così come interpretata e ricostruita, non solleva i dubbi di contrarietà con l’ordinamento dell’Unione Europea .

Inoltre, un’altra pronuncia del supremo organo amministrativo , rilevava l’inconferenza  della norma europea con la legislazione nazionale sulle abilitazioni in difetto di un elemento di estraneità (ad esempio abilitazione conseguita all’estero) e con tale giudizio si può difficilmente discordare, se si tiene in mente che le norme europee agiscono comunque nei limiti del principio di attribuzione degli organi comunitari, che difficilmente possono avere potere su istanze del tutto interne come la regolazione delle professioni interna ad uno Stato Membro.

Chiarita l’inconferenza del diritto dell’Unione rispetto al sistema delle abilitazioni, resta ugualmente rilevante sul piano della ragionevolezza e dell’interpretazione delle norme interne la valutazione della collocazione del sistema dei percorsi abilitanti nel sistema scolastico, la cui natura di “mere procedure di programmazione delle entrate” sembra effettivamente confermata dallo stesso art. 1, comma 416 della legge 244/2007 che istituiva i TFA, secondo cui “…l’attività procedurale per il reclutamento del personale docente, attraverso concorsi ordinari, con cadenza biennale, nei limiti delle risorse disponibili…”. Secondo la sentenza, affermare che una procedura consente soltanto di programmare gli accessi significa dire che l’accesso non è consentito dalla procedura di abilitazione ma dal titolo sottostante.

L’argomento sarebbe rafforzato anche dalla disposizione contenuta nella Legge delega del 2015 , secondo cui la mancanza di una “abilitazione all’insegnamento”, non osterebbe a che il dirigente scolastico possa conferire incarichi anche a docenti che ne siano sprovvisti, il che vale a dire che i docenti non abilitati non hanno un vero impedimento tecnico all’insegnamento, ma solo burocratico.

Per tutte queste ragioni, il Tribunale di Roma dichiarava che la ricorrente in possesso del diploma di laurea e dei 24 cfu doveva essere annoverata tra gli “abilitati” al fine di conseguire l’inserimento nella seconda fascia (II fascia) delle GI.

La conclusione sembra avere senso, ma solo secondo un duplice passaggio logico, che risulta non esplicitato nella sentenza.

In primo luogo, bisogna accertare se il soggetto in possesso del diploma di laurea e dei 24 cfu possa dirsi “abilitato”, mentre apparentemente così non sarebbe nella lettera del decreto delegato, che pone il possesso dei requisiti anzidetti come accesso alternativo all’abilitazione. Tuttavia, si è già ampiamente argomentato in precedenza sul fatto che la Legge del 2015 richiedeva l’abilitazione come presupposto dell’accesso al concorso in ogni caso e che dunque l’unica interpretazione legittima dell’alternativa delineata dal decreto sarebbe quella di intendere il possesso dei requisiti come una diversa formula di conseguire il medesimo stato di abilitazione.

Chiarito questo, tuttavia, che trova riscontro nell’interpretazione di disposizione di legge, pur sistematica, occorre compiere un ulteriore passaggio per chiarire che questo stato di abilitazione non possa essere distinto ragionevolmente da quello indicato con il medesimo termine che è utile ai fini dell’iscrizione nelle GI.

La difesa dell’amministrazione, nel caso esaminato, infatti, consisteva nell’asserire che il ricorrente non poteva accedere alla graduatoria, mentre poteva accedere di certo al concorso, perché possedeva i requisiti richiesti dal decreto delegato. Ora, questa argomentazione, visto che come già si è detto la Legge prevede l’abilitazione come requisito per entrambe le situazioni, appare davvero insostenibile dal punto di vista logico, in quanto si sosterrebbe che esistano nell’ordinamento due distinte abilitazioni all’insegnamento, una utile ai fini del concorso e un’altra utile ai fini delle GI. Mentre, come è ovvio, tale non era l’intenzione del legislatore nel porre i requisiti di iscrizione delle graduatorie, in cui si alludeva alla medesima abilitazione che dava accesso al concorso, secondo la disciplina allora vigente. Il fatto che successivamente il legislatore abbia adottato nuove disposizioni in materia di abilitazione, nelle varie forme descritte, non vale a distinguere i due status, distinzione che sarebbe se non altro un vuoto sofisma, visto che, come si è detto, in ultima analisi i percorsi abilitanti altro non sono che procedure burocratiche volte, per espressa previsione di legge, solo a cadenzare l’accesso di risorse nell’ambito delle necessità scolastiche.

In questo senso, dunque, il posizionamento del soggetto in una graduatoria d’istituto non lederebbe in alcun modo il bilancio dello Stato, che continuerebbe ad assegnare le supplenze agli iscritti nelle GI secondo le necessità individuate dal provveditorato e ciò conduce alla conclusione che il ragionamento qui esposto non trova nessun limite nella necessità di tutela dei bilanci pubblici, che si potrebbe paventare per limitare i diritti soggettivi dei soggetti.

6. LE OPINIONI CONTRARIE: DUE ORDINANZE CAUTELARI DI RIGETTO

Due recenti pronunce in sede cautelare, tuttavia, non hanno ritenuto di accogliere le pretese dei ricorrenti in possesso del requisito dei 24 CFU.

La prima pronuncia veniva emanata dal Tribunale di Roma lo scorso novembre , e faceva riferimento alla lettera dell’art. 33, c. 5 Cost., sottolineando la prescrizione secondo cui l’abilitazione all’insegnamento deve essere sottoposta a concorso pubblico.

Secondo l’ordinanza ex art. 700 appena citata, appare evidente che nell’ordinamento scolastico persisterebbe una chiara differenza tra titolo di studio richiesto per prestare servizio nella scuola pubblica, e per partecipare ai concorsi, e titolo abilitativo all’insegnamento, che costituisce di norma titolo per la nomina in ruolo, e di legittima precedenza nelle supplenze, per ottenere il quale occorre di regola il superamento di un esame di Stato, costituito alternativamente o dal superamento di un concorso per esami, o dal superamento dell’esame di un corso abilitativo equiparato. Non si tratterebbe, dunque, affatto di “mere procedure amministrative di reclutamento che consentono di “programmare gli accessi”, ma di procedure che hanno la specifica funzione di fornire, senza ricorrere ai concorsi, le abilitazioni di regola necessarie a creare docenti di ruolo nel rispetto dell’art. 33, c. 5., Cost., nella prospettiva del definitivo superamento dell’uso anomalo del “precariato stabile” non abilitato mediante le graduatorie permanenti.

Dopo tale pur condivisibile affermazione, tuttavia, l’ordinanza ammette che vi sono state numerose eccezioni al sistema dei concorsi e se la tutela di rango costituzionale fosse in tal senso non varrebbe la scusante di aver dovuto fronteggiare una strutturale incapacità del sistema scolastico italiano di far fronte al fabbisogno di docenza nella scuola pubblica mediante i normali concorsi per esami. L’ordinanza ammette che tali eccezioni infatti non sono eccezioni ma hanno orma “carattere strutturale”.

Inoltre, la sentenza erra quando afferma che il possesso di laurea e 24 CFU “arricchisce i requisiti di accesso al concorso, senza per questo affatto pretendere di sostituirsi al titolo abilitante”, in quanto l’alternatività/equialenza ai fini del concorso tra questo requisito e quello dell’abilitazione è chiaramente affermata dall’art. 5 del D.lgs. 59/2017.

Inoltre, vi è da chiedersi legittimamente se i percorsi abilitativi previsti dalla legge (SSIS, TFA, FIT) possano davvero ritenersi più qualificanti dei 24 CFU ora previsti. Al di là delle sigle, infatti, in tutti i percorsi abilitanti previsti dalla legge il ruolo preminente era egualmente svolto dalle università nell’erogazione della formazione necessaria ai docenti ed inoltre da queste stesse istituzioni e dai docenti che da esse provenivano venivano erogati i testi e gli esami finali. Pertanto, alla luce di questo dato, non si comprende per quale ragione il conseguimento delle stesse competenze con esami del tutto analoghi, con l’unica differenza che non sono autorizzati dal MIUR ma liberamente conseguiti, non debbano ritenersi idonei all’abilitazione, se lo sono ai fini della partecipazione al concorso di ruolo, visto che poi, in questo caso, se vincitori, i soggetti divengono titolari di cattedra senza acquisire ulteriori competenze. Ma se sono competenti per avere una cattedra, lo sono sicuramente anche per iscriversi alla seconda fascia ed avere preferenza nelle supplenze.

Il secondo arresto, sempre reso in sede cautelare, ma dal Tribunale di Civitavecchia , ritiene, invece, che il nodo della questione risieda nell’interpretazione della Legge del 2015, il cui comma 180 dell’art. 1, che afferma la necessarietà del requisito dell’abilitazione per la partecipazione ai concorsi, si riferirebbe al sistema previgente a quello delineato dall’art. 5 del D.lgs. 59/2017 e frutto della delega contenuta nel comma 189 dello stesso articolo. La differenza, secondo l’ordinanza, sarebbe resa palese dalla lettera della disposizione e dal fatto che il d.lgs. originariamente non prevedeva l’abilitazione come requisito alternativo ai 24 CFU, ma questi ultimi erano l’unica modalità di accesso al concorso. La correzione arrivava nel 2018, con la legge finanziaria , che aggiungeva le parole “il possesso dell’abilitazione specifica sulla classe di concorso oppure” prima del noto requisito dei crediti formativi. A detta dell’ordinanza questa circostanza testimonierebbe “con l’utilizzo della congiunzione “oppure”, la netta differenza tra i titoli abilitanti e il possesso della laurea magistrale accompagnata dai ventiquattro crediti formativi, sancendone l’equiparazione ai soli fini della partecipazione al concorso”. Tuttavia, anche questa interpretazione appare difficilmente condivisibile. La ratio della legge del 2015, soprannominata giornalisticamente la “buona scuola”, era appunto quella di superare il sistema previgente di disordinato ed irregolare reclutamento del personale scolastico, per tornare a criteri di efficienza e competenza. Inoltre, in campo di requisiti per l’accesso ai concorsi, chiaramente la Legge non può disporre che per il futuro e non si comprende, pertanto, a quale sistema previgente dovrebbe riferirsi il comma 180. A scanso di ogni equivoco, comunque, come giustamente riporta anche l’ordinanza, l’art. 1, c. 180, afferma il requisito dell’abilitazione “a decorrere” dal concorso disciplinato dalla stessa Legge, che si è tenuto nel 2016, il che vale chiaramente a dire che la norma varrà per quel concorso e per tutti quelli futuri fino all’eventuale abrogazione.

7. CONCLUSIONI

In conclusione, si dovrebbe ritenere, per tutto quanto si è esposto prima, che il soggetto in possesso del diploma di laurea e dei 24 cfu possa dirsi “abilitato” ai sensi dell’art. 1, c. 110 della L. 107/2015 e dell’art. 5, c. 1, lett. b), del d.lgs. 59/2017, ai fini della sua partecipazione al concorso ordinario, e che, di conseguenza, tale status di “abilitato” debba considerarsi accertato ad ogni fine previsto dalla legge, ivi compresa l’iscrizione nella II fascia delle GI. Tale conclusione può essere raggiunta agilmente con la sola interpretazione sistematica delle norme interne, mentre sono inconferenti i richiami al diritto europeo, che non ha nulla a che fare con la regolazione di una professione quale quella di insegnante, per la quale l’ordinamento richiede il completamento di un percorso abilitante. La promulgazione di concorsi straordinari, aventi diversi requisiti da quelli previsti dalle norme sopra citate non vale a modificare il quadro generale così delineato, ma solo a supplire le esigenze intermedie delle amministrazioni scolastiche, in attesa della messa a regime del sistema delineato nella riforma Buona Scuola.

Riccardo Fratini

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