Corte Costituzionale dichiara illegittimo anche l’art. 4 del Jobs Act

La sentenza recente della Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo anche l’art. 4 del Jobs Act, che prevedeva l’indennità per il licenziamento affetto da vizi formali e procedurali.

L’indennità per vizi formali e procedurali nel Jobs Act

L’indennità per il licenziamento affetto da vizi formali e procedurali si attesta sulle dodici mensilità e non è stata modificata dall’ art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96, che ha elevato a trentasei mensilità l’ammontare massimo dell’indennità per il licenziamento affetto da vizi sostanziali.

L’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, applicabile agli operai, agli impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, riproduce in gran parte le disposizioni dell’art. 18, sesto comma, dello statuto dei lavoratori, così come novellato dalla legge n. 92 del 2012.

La tutela, anche nel nuovo regime, ha carattere residuale e non si applica quando il giudice ravvisi i presupposti del licenziamento discriminatorio, nullo, intimato in forma orale o carente di giusta causa o di giustificato motivo oggettivo o soggettivo.

La previsione regola la sola ipotesi del licenziamento «intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all’articolo 7 della legge n. 300 del 1970».

Ove riscontri i vizi indicati, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna «il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità».

L’art. 9 del d.lgs. n. 23 del 2015 dispone che l’importo della indennità sia dimezzato, nel caso di «piccole imprese», che non raggiungano i requisiti dimensionali dell’art. 18, ottavo e nono comma, dello statuto dei lavoratori.

Vizi formali e procedimentali nella Legge Fornero

La legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), ha riservato un’autonoma disciplina alle conseguenze sanzionatorie dei vizi formali e ha modulato le tutele, in ragione della diversa gravità di tali vizi.

Nell’intervenire sull’art. 18, primo e secondo comma, della legge n. 300 del 1970, la legge citata ha conferito autonomo rilievo al licenziamento intimato in forma orale, disponendo, a prescindere dal numero di lavoratori occupati, la reintegrazione del lavoratore e il risarcimento del danno, pari a «un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative» e comunque non inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto.

L’art. 2, commi 1, ultimo periodo, e 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, nel confermare tale linea di tendenza, puntualizza che, per il licenziamento intimato in forma orale, l’indennità è commisurata non più all’ultima retribuzione globale di fatto, ma all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.

Regole diverse vigono per gli altri vizi formali e, in particolare, per l’ipotesi di «licenziamento dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all’articolo 7 della presente legge, o della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni», prevista nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

La legge n. 92 del 2012 (art. 1, comma 42, lettera b), nel modificare l’art. 18, sesto comma, dello statuto dei lavoratori, ha previsto una tutela prettamente indennitaria, che ha carattere residuale, in quanto si applica soltanto quando il giudice non accerti anche il difetto di giustificazione del licenziamento.

Il giudice, in tale fattispecie, dichiara risolto il rapporto di lavoro e attribuisce al lavoratore «un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo».

La tutela indennitaria definita dallo statuto dei lavoratori è applicabile, dal punto di vista soggettivo, «al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell’ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all’impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti» (art. 18, ottavo comma, della legge n. 300 del 1970).

Nell’assetto della legge n. 92 del 2012, il datore di lavoro che non raggiunga le dimensioni di cui all’art. 18, ottavo comma, dello statuto dei lavoratori, e sia assoggettato, pertanto, al regime della tutela obbligatoria, dovrà corrispondere, nell’ipotesi di vizi formali diversi dall’inosservanza della forma scritta del licenziamento, una indennità determinata secondo le regole dell’art. 8 della legge n. 604 del 1966, in un «importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti», accresciuto in rapporto all’anzianità di servizio (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 5 settembre 2016, n. 17589).

La decisione della Corte Costituzionale sul Jobs Act

Secondo la Corte Costituzionale, la disciplina del licenziamento affetto da vizi di forma e di procedura, proprio per gli interessi di rilievo costituzionale che sono stati richiamati, deve essere incardinata nel rispetto dei princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza, così da garantire una tutela adeguata.

La prudente discrezionalità del legislatore, pur potendo modulare la tutela in chiave eminentemente monetaria, attraverso la predeterminazione dell’importo spettante al lavoratore, non può trascurare la valutazione della specificità del caso concreto. Si tratta di una valutazione tutt’altro che marginale, se solo si considera la vasta gamma di variabili che vedono direttamente implicata la persona del lavoratore. Nel rispetto del dettato costituzionale, la predeterminazione dell’indennità deve tendere, con ragionevole approssimazione, a rispecchiare tale specificità e non può discostarsene in misura apprezzabile, come avviene quando si adotta un meccanismo rigido e uniforme.

La disciplina censurata dalla Corte Costituzionale non attua un equilibrato contemperamento tra i diversi interessi in gioco ed è stata quindi ritenuta illegittima.

Entrambi i rimettenti prendono le mosse dalla sentenza n. 194 del 2018, con cui questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui determinava l’indennità per il licenziamento intimato senza giusta causa e senza giustificato motivo oggettivo o soggettivo in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio».

Le censure ricalcano in gran parte le argomentazioni svolte nella citata sentenza di questa Corte circa il carattere rigido dell’indennità, lesivo dei princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e del diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), tutelato dalla Costituzione in tutte le sue forme e applicazioni.

Riccardo Fratini

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