Licenziamenti dopo il 17 marzo 2020: nullità o inefficacia?

Come si è già detto in un altro post, l’art. 46 del D.L. Cura Italia sospende i Licenziamenti dopo il 17 marzo 2020 e fino al 17 agosto 2020 . Lascio alla consultazione del vecchio post la spiegazione delle differenze tra divieto di licenziamento per motivi economici e liceità di licenziamenti disciplinari e per giusta causa.

Il mio amico Paolo Iervolino su Giustizia Civile ha scritto un interessante articolo cercando di riassumere i limiti di operatività del divieto/sospensione dei licenziamenti dopo il 17 marzo 2020, che dovrebbe durare fino al 16 maggio 2020 (lui dice fino al 17 maggio, ma credo che il calcolo del mio precedente articolo sia corretto).

Mi ha fatto così sorgere una domanda, relativa alla sanzione che deriverebbe alla procedura di licenziamento economico (individuale o collettivo) che fosse iniziata o proseguita in questo periodo.

Licenziamenti dopo il 18 marzo 2020 di tipo individuale?

I due casi, innanzi tutto, credo meritino una trattazione separata.

Il licenziamento individuale per ragioni organizzative, tecniche o produttive, infatti, sarebbe in questo periodo senza dubbio invalido, ma quale tipo di invalidità sia quella prevista dall’art. 46 del Decreto Cura Italia resta, sembra, una questione aperta.

L’articolo sopra citato, ad esempio, sostiene la tesi della nullità dei licenziamenti dopo il 17 marzo 2020 se intimati del GMO, giustificando questa affermazione in quanto:

  • la norma lo preclude “espressamente” (come prevede l’art. 2 D.lgs. 23/2015).
  • il licenziamento sarebbe considerato contrario a una norma imperativa (l’art. 46 stesso);
  • essa, in ogni caso, configurerebbe una nullità “virtuale”;

L’ipotesi della nullità “virtuale” sarebbe di certo di difficile applicazione nella nuova disciplina dei licenziamenti dettata dal Jobs Act (CESTER C., I licenziamenti nel Jobs Act; VALLEBONA, Istituzioni di diritto del lavoro;) e quindi ai fini di questa norma legislativamente più recente occorrerebbe tenere in considerazione soltanto le prime due ipotesi e vagliare la nullità ai sensi dell’art. 2 d.lgs. 23/2015 e dell’art. 1418 c.c., che afferma la nullità dei negozi per contrarietà a norme imperative.

Per evitare una doppia trattazione che dilungherebbe di molto il discorso, si deve premettere che nel più vi è il meno e che, di conseguenza, se non vi è una norma imperativa nemmeno essa potrebbe disporre in modo espresso la nullità degli atti di autonomia privata ad essa contrari. I due concetti sono, dunque, consequenziali, ma ben distinti. Possono comunque essere trattati congiuntamente.

L’art. 46 di Cura Italia come norma imperativa

L’art. 46 di Cura Italia è certamente una norma imperativa, ma si può discutere su quale sia il suo effettivo contenuto precettivo.

Non sono d’accordo infatti con l’autore dell’articolo citato quando afferma che la rubrica debba essere corretta nell’interpretarla, perché, forse, essendo un po’ demodé come giurista, ho ancora l’abitudine di applicare l’art. 12 delle Preleggi e quindi di correggere le interpretazioni alla luce delle disposizioni e non l’inverso.

La parola sospensione nella rubrica, ripetuta d’altronde nel corpo del testo, ed il lemma “precluso” hanno un preciso significato comune, a cui non si può attribuire altro senso che quello di, per l’appunto, “sospendere” l’efficacia dei recessi volti a far cessare i rapporti di lavoro per ragioni economiche durante il periodo di crisi massima.

Con specifico riferimento al licenziamento individuale, il legislatore ha usato l’infelice combinazione “sino alla scandenza….il datore di lavoro…non può recedere”, ma alla luce del periodo precedente e della rubrica il sintagma “non può” il legislatore non intende “è vietato”, ma siccome il licenziamento per gmo non ha una procedura da sospendere, si è pensato di sospendere l’efficacia dei recessi con questa formula in luogo di quella più chiara della sospensione.

Il senso della disposizione si evince anche dal fatto che il legislatore ha voluto compensare i datori di lavoro sostituendo la retribuzione con la cassa integrazione (straordinaria ed in deroga per tutti), in modo da non far loro sopportare integralmente il perso del rapporto conservato per legge grazie all’alleggerimento che deriva dall’applicazione generalizzata degli ammortizzatori.

Se questa è la corretta interpretazione della norma, come io credo che sia, secondo il senso proprio delle parole e la connessione di esse, credo che sia sul piano dell’interpretazione letterale che della ratio si debba intendere che l’art. 46 imponga un binomio necessario tra sospensione degli effetti dei recessi e previsione degli ammortizzatori e che i due istituti in qualche modo simul stabunt et simul cadent. Non nel senso che il licenziamento resterebbe sospeso nei suoi effetti fintanto che il lavoratore resti in cassa integrazione, ma solo che in punto di fatto entrambe le misure sono state pensate per evitare una diminuzione sostanziale dell’occupazione a seguito della crisi.

Da questi argomenti si desume che la ratio legis indica la sospensione degli effetti dei recessi come conseguenza della disposizione e non la nullità per contrarietà a norma imperativa. Anche perché l’interpretazione contraria, volta a vietare del tutto un atto di autonomia imprenditoriale e non a differirne gli effetti sarebbe senza dubbio incostituzionale per contrarietà all’art. 41 Cost., con buona pace degli argomenti di temporaneità e straordinarietà sostenuti dal mio amico nel suo pur sapiente ed erudito articolo. La straordinarietà del momento infatti consente il differimento dell’effetto interruttivo del rapporto, ma non potrebbe privare l’imprenditore del potere di interrompere un rapporto del quale egli, senza la straordinarietà degli ammortizzatori previsti insieme alla sospensione, patirebbe le conseguenze economiche fino all’estrema conseguenza del fallimento.

Chiarita la ratio, con questa ultima analisi, non si può negare che l’effetto precettivo della norma sia quello di “sospendere” e non annullare i licenziamenti iniziati prima o durante la previsione di legge. In questo senso, quindi, il licenziamento intimato anche durante non sarebbe contrario ad una norma imperativa, che si limiterebbe, ai sensi dell’art. 1374 cod. civ. ad integrarne il contenuto differendo i suoi effetti al 17 maggio 2020. E ciò varrebbe sia per il regime di tutela di cui al jobs act che per il regime fornero.

L’art. 46 come nullità espressamente prevista dalla legge?

Per le medesime argomentazioni, non vedo come si potrebbe affermare che si tratti di un caso di nullità espressamente prevista dalla legge ex art. 2 D.lgs. 23/2015, dato che l’articolo non riporta la parola nullità/nullo nemmeno una volta.

Licenziamenti dopo il 18 marzo 2020 di natura collettiva

Un discorso analogo e ancora più chiaro vale per i licenziamenti dopo il 17 marzo 2020 di natura collettiva.

Le parole “sospeso” e “precluso” qui lasciano meno spazio all’intepretazione della nullità, chiarendo l’intenzione del legislatore per l’effetto sospensivo delle procedure per il tempo necessario a passare l’emergenza.

Insomma i licenziamenti sono stati, per dirla in modo giornalistico, solo “congelati”.

Regime sanzionatorio applicabile

La sospensione, quindi, non influisce in alcun aspetto dei licenziamenti e delle procedure iniziate prima o durante questo periodo, se non nel termine iniziale degli effetti.

La giustificazione, invece, dovrà essere valutata sul piano fattuale e caso per caso. Il governo, infatti, ha posto rimedio alle conseguenze economiche della crisi (o almeno ritiene di averlo fatto), ma non alle situazioni sfavorevoli “non contingenti” che la cassazione richiede ai datori di lavoro per sopprimere una posizione e licenziare per GMO e quindi il sindacato giudiziale sulla effettiva sussistenza di queste situazioni sfavorevoli non dovute solo al momento presente è perfettamente possibile.

Nessuna nullità di diritto, quindi, nè reintegrazione automatica. Anzi, il licenziamento può essere valido, anche se inefficace fino al 17 maggio 2020.

Riccardo Fratini

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