Jobs Act: la Corte Costituzionale rilancia il contenzioso sul licenziamento

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La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 3, comma 1, del Decreto legislativo n.23/2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte – non modificata dal successivo Decreto legge n.87/2018, cosiddetto “Decreto dignità” – che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato. In particolare, la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è, secondo la Corte, contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione.

Nel 2017, le cessazioni di contratti a tempo indeterminato, che ovviamente possono essere dovute a dimissioni o pensionamenti oltre a licenziamenti, sono state 240.000 contro 265.000 del 2016 ed in particolare i licenziamenti sono stati 71.000 contro 77.000 dello stesso periodo del 2016 e 74.000 del 2015. I licenziamenti per giusta causa/motivi soggettivi (essenzialmente disciplinari) sono invece aumentati nel 2017 passando da 8483 del 2015 a 10107 del 2016, a 11656 del 2017.

Il numero di procedimenti iscritti nei Tribunali e nelle Corti d’Appello italiani in materia di lavoro privato è rimasto sostanzialmente stabile tra il 2005 e il 2011; in quest’ultimo anno sono stati iscritti 150.000 procedimenti, pari a circa 1 ogni 100 dipendenti del settore privato. Dal 2012, quando è entrata in vigore la Riforma Fornero, si è assistito a una costante riduzione del numero di procedimenti. Nel 2016 essi sono ammontati a meno di 100.000 unità (7 ogni 1000 dipendenti del settore privato), oltre il 30 per cento in meno rispetto a cinque anni prima. Benché anche il numero di casi definiti è diminuito, ma proporzionalmente in maniera meno intensa, nel tempo, il livello dei casi pendenti si è progressivamente ridotto; nel 2016 erano il 40 per cento in meno rispetto al 2011. Tali andamenti complessivi accomunano sia i procedimenti iscritti nei Tribunali, sia i ricorsi in Corte d’Appello. Grazie alla disponibilità di dati più disaggregati, per gli anni 2014-16 è possibile anche effettuare un’analisi degli andamenti relativi a specifiche fattispecie; tale analisi è da considerarsi come puramente indicativa, in quanto la tassonomia utilizzata dal Ministero della Giustizia per classificare la natura dei diversi procedimenti è molto generica, ed è possibile in particolare che procedimenti che riguardano più fattispecie diverse vengano classificati dalle cancellerie dei tribunali nella medesima categoria.

Tuttavia, tra il 2014 e il 2016 vi è stato un aumento del numero di procedimenti relativi ai licenziamenti individuali o collettivi. Se raffrontati al numero di licenziamenti, stabile attorno ai 740.000 l’anno, i licenziamenti impugnati in tribunale o corte d’appello sono perciò passati dal 2,9 al 3,3 per cento tra il 2014 e il 2016. Tuttavia, occorre rilevare che all’interno di questo maggior numero di casi (restringendo l’attenzione alle sole procedure giudiziali) sono calati i procedimenti ordinari (meno 30 per cento) e sono aumentate le cause di licenziamento gestite con il procedimento speciale abbreviato previsto dalla L. 92/2012 (70 per cento). Questo spostamento ha favorito una più rapida definizione degli esiti e dei carichi pendenti, che alla fine del 2016 erano il 17,5 per cento in meno rispetto a cinque anni prima. Nel complesso pertanto si può affermare che le riforme della disciplina dei licenziamenti che hanno avuto luogo nel 2012 e nel 2015 abbiano diminuito in maniera significativa la durata dei procedimenti.

Le ragioni di tale diminuzione erano da individuare principalmente nella riduzione del montante della sanzione civile prevista per il licenziamento nelle riforme, il che spiega anche perché al complessivo aumento dei licenziamenti impugnati corrisponda un aumento più che proporzionale di cause introdotte con il Rito Fornero, dato che solo per i vecchi assunti c’erano ancora sanzioni economiche significative (12-24), mentre per i nuovi assunti l’indennità crescente prevista dal Jobs Act era contenuta (4-6 mensilità nei primi tre anni dall’assunzione).

Di conseguenza, ora che il giudice potrà scegliere discrezionalmente l’ammontare dell’indennità tra 6 e 36 mensilità non essendo ristretto dal solo criterio dell’anzianità, è prevedibile un aumento delle sanzioni e conseguentemente un corrispondente ritorno alla situazione del contenzioso precedente al 2012, dato che l’indennità massima è ora di nuovo molto alta e può rendere conveniente al lavoratore intraprendere e sostenere i costi di un procedimento giudiziale. Una linea difensiva possibile, per quanto desumibile dal comunicato, è costituita dal fatto che, a quanto sembra, la Corte ha soltanto ritenuto che l’anzianità non possa essere individuato come criterio unico, ma non ha affermato che essa non costituisca un elemento di valutazione per il giudice insieme ad altri. Di conseguenza si potrà sostenere che i dipendenti assunti da poco non potrebbero comunque vedersi liquidata l’indennità massima, pur dovendosi tenere anche conto di altri criteri.

Riccardo Fratini

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