Separazione delle carriere dei magistrati

Alla Camera dei Deputati è depositato un disegno di legge di iniziativa popolare per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura, presentata alla Camera dei deputati nella XVII legislatura il 31 ottobre 2017 e mantenuta all’ordine del giorno ai sensi dell’articolo 107, comma 4, del Regolamento.

La proposta di separazione delle carriere di giudici e di pubblici ministeri ha prodotto nel tempo diversi equivoci ed è stata spesso inquinata da false prospettive ideologiche e da improprie attribuzioni politiche.

Secondo il relatore del ddl, la separazione delle carriere non è un fine ma un mezzo e non è più prorogabile perché è inscritto nella nostra Costituzione nell’articolo 111, il quale impone che il giudice sia non solo imparziale ma anche terzo. E terzietà non può che significare appartenenza del giudice a un ordine diverso da quello del pubblico ministero.

La separazione delle carriere serve a rendere il processo penale più equo perché lo assegna a un giudice terzo a garanzia dell’imparzialità della decisione. 

La crisi del diritto e del processo che investe l’intero mondo occidentale assume nel nostro Paese caratteristiche proprie. Se, infatti, nell’intero mondo occidentale il problema è quello della presenza di un giudice che oramai governa con le proprie decisioni, non solo i nodi essenziali dei diritti e delle garanzie individuali, ma anche quelli dell’economia, dell’ambiente e dello sviluppo tecnologico, sostituendosi di fatto al ruolo che un tempo esercitava la politica, improvvisando così soluzioni sul caso concreto, in Italia questa espansione si risolve in un duplice problema.

Mentre nel mondo occidentale il problema della modernità riguarda il ruolo del giudice nella società, nel nostro Paese il problema è quello di trovare un «giudice» che possa autorevolmente e legittimamente coprire quel ruolo. L’anomalia, nel nostro Paese, è infatti nei rapporti ordinamentali che distorcono in radice gli equilibri giurisdizionali.

Quello che altrove è, dunque, un problema politico-ideologico ed esclusivamente una questione di delimitazione del ruolo nel nostro Paese assume le dimensioni di un abisso istituzionale all’interno del quale la nostra stessa democrazia lentamente sprofonda. È un motivo sufficiente per tracciare una linea netta fra coloro che, all’interno dell’intera magistratura, ricoprono la figura di giudici terzi e di coloro che svolgono invece funzioni requirenti. 

Di fronte a questa prospettiva non possiamo non dotarci di un giudice osservante della «cultura del limite». Questa espressione riassume efficacemente tutte le aspettative che una democrazia liberale coltiva nei confronti di un potere giurisdizionale, che sia garante dei diritti di libertà dei cittadini di fronte all’autorità dello Stato, all’azione dei pubblici ministeri, agli atti investigativi della polizia giudiziaria che a quei pubblici ministeri risponde. 

Il giudice non può che assolvere istituzionalmente a questo compito essenziale che lo pone come ultimo «controllore» degli esiti dell’azione penale promossa dai pubblici ministeri. Ma se questo è il compito del giudice, non potremo non riconoscere che «controllore» e «controllato», giudice e pubblico ministero, non possono appartenere a un unico ordine, non possono essere sottoposti al potere disciplinare di un unico organo, non possono condividere i medesimi meccanismi di selezione elettorale della loro classe dirigente. 

La separazione delle organizzazioni dei magistrati d’accusa e di decisione è, inoltre, il dato essenziale che connota gli ordinamenti giudiziari democratico-liberali e li distingue da quelli a ispirazione autoritaria. 

Le funzioni d’accusa e di decisione sono radicalmente incompatibili: non possono essere concepite come due sotto-funzioni di una medesima funzione e neppure possono vedere gli organi dell’una e dell’altra accomunati in un’unica organizzazione ordinamentale. 

Le due funzioni sono fra di loro diverse su tutti i piani: i ruoli e le finalità istituzionali, le specifiche culture professionali, la collocazione nella struttura del processo, la relazione con la funzione di difesa. 

Per le due funzioni e per gli organi che le esercitano valgono infatti distinti princìpi costituzionali. 

Il giudice è terzo e imparziale; il pubblico ministero è parte. 
Il giudice è soggetto soltanto alla legge e quindi l’esercizio della giurisdizione è contrassegnato rigorosamente dal principio di legalità; il pubblico ministero è organo dell’azione penale, potere che, nella sua doverosità, annovera ineliminabili momenti di libera discrezionalità. 

Su questo è emblematico l’esempio dato dall’ordinamento americano dove giudici e giuria hanno un ruolo diverso dal pubblico ministero.

Il giudice è sovraordinato rispetto alla contrapposizione dialettica fra accusa e difesa; il pubblico ministero partecipa, in un rapporto di parità, alla tensione del contraddittorio delle parti quale strumento gnoseologicamente idoneo alla migliore ricostruzione del fatto. 

È dunque improponibile che due soggetti processuali, il giudice e il pubblico ministero, irriducibilmente diversi quanto a configurazione costituzionale, natura istituzionale e funzione, siano identificati in una medesima organizzazione ordinamentale. 

L’assetto realizzato dai Costituenti, portato del modello inquisitorio all’epoca vigente, deve essere riformato per acquisire, tramite la separazione delle organizzazioni di giudici e pubblici ministeri, un sistema di amministrazione della giustizia ispirato alle regole del giusto processo. 

Il valore fondamentale da perseguire è l’imparzialità della decisione, cioè la decisione giusta, che è tale nei meccanismi che la producono e nell’affidabilità sociale: il cittadino, orientato dall’immediato senso comune, non crede che la decisione presa da un giudice che condivide con il soggetto che lo accusa la medesima collocazione istituzionale possa essere una decisione giusta. Il giudice «collega» dell’accusatore è «tecnicamente» inattendibile per come esercita la giurisdizione ed è «politicamente» non credibile per l’imputato e per la società. 

Nuovi organi di controllo separati ed elettivi

La relazione illustrativa chiarisce che sarebbe, inoltre, necessario al fine di evitare che i Consigli superiori della magistratura (CSM) si atteggino ad organi corporativi e autoreferenziali, che ne sia mutata la composizione con una maggiore partecipazione delle componente laica. 

Del resto, in seno all’Assemblea costituente, la scelta di prevedere un’ampia maggioranza della componente «togata» non fu per nulla scontata. Al contrario, si trattò solo di una delle possibili soluzioni e prevalse di misura sulle altre. Tra queste ve ne era una, prevista nell’originario progetto della Commissione dei settantacinque e ripresa in seduta plenaria con l’emendamento Conti, Leone, Giovanni, Bettiol, Cassiani, Rossi Paolo, Perassi e Giuseppe Dossetti, che stabiliva, appunto, una composizione paritaria dei componenti «togati» e dei componenti «laici». 

In questa prospettiva di un più corretto equilibrio della composizione del CSM giudicante e di quello requirente, si muove la proposta di legge costituzionale, con la previsione di un pari numero di membri elettivi «togati» e «laici». In ogni caso, la maggioranza della componente «togata» è assicurata dalla presenza, quale membro di diritto, del Primo presidente della Corte di cassazione. 

Inoltre, poiché nel dibattito di questi anni è stata particolarmente avvertita la necessità di escludere che gli organi di governo della magistratura possano esercitare un ruolo particolarmente contiguo alla politica, è specificato che competenze ulteriori rispetto alle assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni e provvedimenti disciplinari possano essere attribuite solo con legge costituzionale. 

Si tratta di un principio di natura liberale che Alexis de Tocqueville riassumeva nei seguenti termini: «quando un giudice, a proposito di un processo, si pronuncia su una legge relativa a questo processo, estende il cerchio delle sue attribuzioni, ma non ne esce, poiché ha voluto in questo modo giudicare la legge, per arrivare a giudicare il processo. Quando invece si pronuncia su di una legge, senza prendere le mosse da un processo, egli esce completamente da quella sfera, e penetra in quella del potere legislativo» (A. De Tocqueville, «La democrazia in America»). 

La discrezionalità dell’azione penale

Questa previsione colma una lacuna obiettiva del nostro sistema costituzionale, che ha consentito al CSM di adottare anche atti di indirizzo politico e di esercitare funzioni «paranormative» che, talvolta, hanno determinato contrasti con altri poteri dello Stato. 

L’Assemblea costituente ha, infatti, disposto che i pubblici ministeri dovessero avere il monopolio dell’iniziativa penale e, nel contempo, il potere di disporre della polizia durante la fase delle indagini. Ha voluto altresì che tale monopolio fosse esercitato in piena indipendenza, vale a dire al di fuori di una qualsiasi delle forme di responsabilità politica, diretta o indiretta, esistente nelle altre democrazie costituzionali. 

Per evitare un uso discrezionale o arbitrario del potere inquirente del pubblico ministero, il Costituente ha ritenuto poi che bastasse prescrivere l’obbligatorietà dell’azione penale per tutti i reati. 

I Padri costituenti erano fermamente convinti che indipendenza e obbligatorietà dell’azione penale – concepite come due facce della stessa medaglia – sarebbero state il miglior presidio del precetto costituzionale che sancisce l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. 

Tuttavia, anche in Italia l’azione penale risulta essere di fatto largamente discrezionale, almeno quanto lo è in altri Paesi e, per certi aspetti, anche di più. 
  Una discrezionalità che con il tempo è divenuta sempre più visibile anche a causa delle crescenti dimensione e complessità dei fenomeni criminali. 
  A riguardo basti ricordare che:

   1) già la Commissione ministeriale per la riforma dell’ordinamento giudiziario, nominata con decreto dell’allora Ministro di grazia e giustizia Conso nel febbraio 1993 e composta in maggioranza da magistrati di varie correnti, aveva riconosciuto l’impossibilità di perseguire tutti i reati, anche laddove fosse attuata un’ampia depenalizzazione, e aveva pertanto ritenuto che fosse necessario stabilire alcune priorità nell’esercizio dell’azione penale. Rimase soccombente tuttavia l’orientamento che, data la natura politica della materia, il compito di fissare le priorità spettasse al Parlamento (proposta di Zagrebelsky). Prevalse, invece, la decisione che fossero le stesse procure della Repubblica a stabilire le priorità (Documenti Giustizia, 1994, pagina 1100);

   2) l’esigenza di fissazione delle priorità risulta persino da risalenti sentenze disciplinari, come nel caso in cui la sezione disciplinare del CSM ha giudicato un pubblico ministero che era stato trasferito e che aveva lasciato nel suo ufficio di origine una considerevole mole di lavoro non espletato e che nella scelta delle priorità aveva utilizzato criteri propri. La sezione disciplinare lo aveva assolto affermando che la mole di lavoro non consentiva il pieno smaltimento dei casi a lui assegnati e che la definizione delle priorità effettuata personalmente non costituiva illecito disciplinare in quanto non vi erano priorità stabilite per tutti i sostituti dalla procura in cui l’incolpato aveva prestato servizio (sentenza disciplinare n. 33 del 1997);

   3) la necessità di fissare priorità risulta anche da verbali del CSM, come ad esempio dall’allegato A al verbale del plenum del 10 giugno 1998, ove si prendeva atto che in alcune procure generali di corte d’appello erano state fissate priorità, peraltro in termini più o meno generici, e in altre no;

   4) l’esigenza di fissare priorità nell’esercizio dell’azione penale è stata oggetto di una raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. In tale delibera si raccomandava l’adozione del principio di opportunità dell’azione penale e si indicavano le garanzie che dovevano accompagnare tale scelta. Agli Stati membri che in Costituzione prevedevano l’obbligatorietà dell’azione si raccomandava di adottare misure in grado di raggiungere gli stessi obiettivi che si ottengono con l’adozione del principio di opportunità e con le garanzie ad esso relative (raccomandazione 17 settembre 1987, n. R(87)18);

   5) con la famosa circolare del 10 gennaio 2007 (poi seguita da numerose altre) il procuratore della Repubblica di Torino, Marcello Maddalena, ebbe a dettare criteri «discrezionali» per «accantonare» i procedimenti relativi a reati rientranti nel beneficio dell’indulto e che vanno dalla resistenza al pubblico ufficiale, al commercio di prodotti con segni mendaci. Si tratta di 86 delitti contenuti nel codice penale, più quasi tutte le contravvenzioni, a cui si aggiungono centinaia di reati scelti tra le leggi speciali;

   6) un cospicuo numero di procedimenti si esaurisce nella fase delle indagini preliminari ove, secondo i dati ministeriali, matura la più ampia percentuale di prescrizione per circa il 60 per cento, che evidentemente costituisce riprova del fatto che i pubblici ministeri operano delle scelte discrezionali fra procedimenti da trattare e procedimenti, invece, da accantonare negli archivi;

   7) sul medesimo tema e sul presupposto che non sia possibile procedere in relazione a tutte le notizie di reato acquisite dall’autorità giudiziaria, il CSM è intervenuto con delibera n. 382/W/2014 in data 9 luglio 2014, con la quale ha riaffermato la necessità dell’utilizzo dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, oltre che nella trattazione dei processi.

È di tutta evidenza che le scelte che si effettuano nell’esercizio dell’azione penale e nell’uso dei mezzi di indagine sono, per loro natura, scelte di grande rilievo politico. Dal loro concreto esercizio dipende non solo l’effettiva protezione di valori che riguardano la libertà e la dignità dei cittadini, ma anche la definizione di una rilevantissima parte delle scelte di politica criminale relative alla repressione dei fenomeni delittuosi e, quindi, anche l’efficacia complessiva dell’azione repressiva. È una discrezionalità che, a differenza degli altri Paesi democratici, viene da noi esercitata in piena indipendenza da chi in nessun modo può essere chiamato, neppure indirettamente, a rispondere delle scelte politiche sia pur privo di qualsivoglia potere di rappresentanza.

Paradossalmente, quindi, proprio l’obbligatorietà dell’azione penale, che era stata voluta dal nostro Costituente per tutelare il valore dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, è divenuta il principale impedimento alla possibilità di rendere quella tutela effettiva. 

La Riforma

Le ragioni sopra esposte si traducono nella proposta di legge costituzionale per la separazione delle carriere con la modifica agli articoli 104, 105, 106, 107, 110 e 112 della Costituzione, con l’introduzione degli articoli 105-bis e 105-ter

Sono, altresì, modificate, nella parte seconda della Costituzione, le rubriche del titolo IV e delle sezioni I e II dello stesso titolo. 

L’articolo 104 viene modificato con l’espressa previsione che l’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente, governate da distinti CSM. 

I pubblici ministeri continueranno, quindi, ad essere magistrati e a godere delle garanzie di autonomia e indipendenza proprie dei magistrati, ma apparterranno a un ordine giudiziario distinto da quello dei giudici. 

Coerentemente con tale previsione il modificato articolo 106 prevede che i magistrati giudicanti e requirenti siano nominati in base a concorsi separati. 

Al fine di scongiurare che, da organi autonomi e indipendenti di governo della magistratura, i CSM giudicante e requirente operino quali organismi corporativi e autocratici, ne è mutata la composizione. 

La modifica all’articolo 104, che disciplina il CSM giudicante, nel mantenere quali componenti di diritto il Presidente della Repubblica e il Primo presidente della Corte di cassazione, dispone che gli altri componenti siano scelti per la metà tra i giudici ordinari e per l’altra metà dal Parlamento in seduta comune, tra i professori ordinari in materie giuridiche e gli avvocati con quindici anni di esercizio della professione. 

L’articolo 105-bis prevede il CSM requirente, del quale sono componenti di diritto il Presidente della Repubblica e il Procuratore generale della Corte di cassazione. La restante parte è delineata con le medesime proporzioni del CSM giudicante, salvo che la componente togata è scelta tra i pubblici ministeri ordinari. 

A entrambi gli organismi spettano le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni dei magistrati che da loro dipendono, nonché i provvedimenti disciplinari. 

L’articolo 112, regolante l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, è modificato con la previsione che essa è esercitata nei casi e secondo i modi previsti dalla legge.

Riccardo Fratini

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