Il trattamento previdenziale del socio di cooperativa

Trattamento previdenziale. L’art. 3 della L. 142/2001 dispone che “le società cooperative sono tenute a corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine”. Ai soci lavoratori viene quindi applicato direttamente l’art. 36 della Costituzione, riproponendone persino il formato nel dispositivo; tale orientamento in realtà era già stato parzialmente sottolineato dalla giurisprudenza, che aveva rilevato l’effetto espansivo[1] della norma costituzionale, che trovava limite soltanto nel bilanciamento tra valori costituzionali, divenendo così effettivo solo qualora non vada a ledere gli scopi mutualistici ex art. 45 Cost., “sicché a fronte della richiesta del socio lavoratore di adeguamento della retribuzione percepita al canone di quella proporzionata e sufficiente la cooperativa di produzione e lavoro può eccepire che il livello retributivo riconosciuto è quello in concreto compatibile con la possibilità per la cooperativa stessa di operare”[2].

Anche dopo la riforma, nella società cooperativa, il ristorno dell’utile aziendale e i premi di produzione, anche se ad personam, costituiscono parte integrante della retribuzione, pur essendo per essi esclusa la contribuzione all’INPS[3], e possono concorrere al computo del percepito complessivo in rapporto con il dovuto[4]; se un socio lavoratore, quindi, ha una retribuzione annua minima stabilita dal contratto collettivo di 10, e la cooperativa gli corrisponde una retribuzione di 6 con tredicesima di 1 e 3 di ristorno, il percepito sarà pari al dovuto, pur non essendo i 3 di ristorno imponibili di contributo INPS.

Nonostante tali eccezioni che mitigano l’irrazionale scelta del legislatore, il trattamento economico è rimasto, per usare una espressione cara all’ex segretario generale della CIGL, “una variabile indipendente”[5] dalla condizione aziendale.

Il parametro di riferimento si può ritrovare nei contratti collettivi nazionali del “settore o categoria affine”, con prevalenza dei ccnl per i dipendenti delle cooperative nello specifico settore, cioè sostanzialmente, quello stipulato per i lavoratori in cooperativa non soci o in mancanza quello della categoria merceologica più affine che ne sia dotata[6]. Tale norma, di fatto, conferisce efficacia erga omnes in questo settore alla contrattazione collettiva, contravvenendo all’art. 39 comma 1, come sostenuto da autorevole dottrina[7], ma altra parte ha preferito intendere tale efficacia come mero termine esterno di riferimento per la parametrazione del trattamento economico in cooperativa[8] rifacendosi anche a una pronuncia della corte costituzionale[9], la quale aveva statuito in materia previdenziale che: “l’applicazione dei contratti collettivi utilizzati come parametro per la determinazione della retribuzione imponibile, secondo il costante indirizzo giurisprudenziale, non lede affatto la libertà dei datori di lavoro non iscritti alle associazioni sindacali di categoria”, ma ciò è accettabile in materia di previdenza al fine di stabilire con una fictio l’entità della contribuzione dovuta, ma la traslazione dell’enunciato operata sulla retribuzione non deve essere considerata legittima normativamente.

Tra gli aspetti più problematici dell’estensione dell’applicabilità del 36 Cost. al rapporto di lavoro in cooperativa va segnalata la questione della valutazione discrezionale di proporzionalità e sufficienza operata dal giudice nel caso concreto che affida al tribunale il difficile compito di inserirsi nelle dinamiche aziendali tra soci per stabilire quale sia la giusta retribuzione del socio bilanciando i valori costituzionali.[10] In uno stato di diritto liberal-democratico non è tollerabile una simile ingerenza nei rapporti tra privati, a meno che essa non sia correttiva di una sproporzione reale tra le prestazioni sinallagmatiche dei contraenti, come nel caso del contratto di lavoro subordinato o del contratto con clausole generali prestabilite da una parte economicamente più forte; tuttavia tale sproporzione non si presenta nelle cooperative di lavoro che operano secondo i canoni già legislativamente previsti dalla legislazione commercialistica, necessitando al massimo di un controllo pratico e stringente sull’applicazione di tali norme, piuttosto che di questa tendenza alla “nomorrea”[11].

A fugare ogni dubbio circa l’incostituzionalità (per contrarietà all’art. 45 cost.) della legge è arrivata una circolare interpretativa del Ministero del Lavoro a precisare, oltre a ribadire l’estensione del 36 Cost. in spregio alla particolarità del rapporto mutualistico, che “un elemento di forte innovazione da segnalare è poi l’aumento non superiore al 30% del cosiddetto ristorno, con la possibilità di destinarlo anche ad aumento del capitale sociale. La ratio dell’apposizione di un limite alla distribuzione dei ristorni deve essere ricercata nel tentativo di evitare una divisione di utili mascherata dalla forma ristorno.”[12], limitando totalmente il più solidale degli strumenti della cooperativa per competere sul mercato, che rappresentava lo stesso vantaggio mutualistico; e quasi ad affermare la consapevolezza di tale operazione “distruttiva” del fenomeno cooperativo, che di fatto è ridotto a società commerciale analoga a quelle per azioni, si afferma subito dopo: “come è noto, nelle cooperative di lavoro, i ristorni rappresentano il vantaggio mutualistico per il socio, consistendo nei rimborsi effettuati allo stesso socio lavoratore, in ragione della quantità di lavoro da questi prestata per la minore retribuzione percepita rispetto ai ricavi della cooperativa.”[13]

Nella sede di un decreto estremamente eterogeneo (D.L. 248/2007), in cui si davano disposizioni transitorie concernenti la proroga di termini di scadenza per l’adozione di atti o provvedimenti (cd. decreto “mille proroghe”), il legislatore ha inserito anche una norma transitoria estremamente rilevante per il panorama cooperativo: “Fino  alla  completa  attuazione  della normativa in materia di socio   lavoratore  di  società  cooperative,  in  presenza  di  una pluralità di  contratti  collettivi  della  medesima  categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell’ambito di applicazione  di quei contratti di categoria applicano ai propri soci lavoratori,  ai  sensi dell’articolo 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001,  n.  142,  i  trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli    dettati    dai   contratti   collettivi   stipulati   dalle organizzazioni    datoriali   e   sindacali   comparativamente   più rappresentative a livello nazionale nella categoria”[14]. Anche se tale disposizione si inserisce perfettamente nel panorama di contrasto alla concorrenza operata dalle cooperative (in dumping delle società commerciali svantaggiate dagli obblighi retributivi di fonte legale e collettiva), bisogna ritenere la norma particolarmente lesiva del principio di libertà sindacale.

Dato anche il fatto che non sussisteva, né tantomeno sussiste ora, alcuna normativa in materia di socio-lavoratore in attesa di “completa attuazione”, infatti, tale norma si innesta di fatto a ledere la libertà sindacale, attribuendo un potere pressoché illimitato di influenza alle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative che, pur non essendo rappresentate nella cooperativa da alcun iscritto, possono ottenere i diritti sindacali in quanto la cooperativa è obbligata per legge ad applicare i contratti collettivi da esse stipulati.

A tale intervento normativo hanno fatto seguito una serie di note interpretative volte a ribadire il concetto, portando progressivamente la norma da provvisoria, cioè vigente in attesa dell’attuazione piena della legge, a definitiva. Ad esempio il “protocollo cooperazione” del 10 ottobre 2007 sanciva: “Il Governo, in attuazione del Protocollo sul Welfare, avvierà ogni idonea iniziativa amministrativa affinché le cooperative adottino trattamenti economici complessivi del lavoro subordinato, previsti dall’articolo 3 comma 1 della legge 3 aprile 2001, n. 142, non inferiori a quelli previsti dal contratto collettivo nazionale di lavoro sottoscritto dalle associazioni del movimento cooperativo e dalle organizzazioni sindacali per ciascuna parte comparativamente più rappresentative sul piano nazionale nel settore di riferimento”[15] e dello stesso tenore le circolari successive del Ministero[16]. Il senso complessivo degli interventi è quello di obbligare sostanzialmente le società cooperative (anche quelle sane a mutualità “prevalente”) ad applicare la contrattazione delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, con enorme vantaggio contrattuale di queste ultime, che, per questa via, vanno ad acquisire i diritti sindacali del Titolo III dello stat. lav. in tutte le aziende in cui si applica il contratto collettivo da loro stipulato, pur in assenza di iscritti nell’unità produttiva. Tale disposizione, come fatto autorevolmente notare in dottrina[17], svaluta la capacità dei contratti stipulati dall’UNCI e da altre rilevanti associazioni sindacali autonome come CISAL, principali interlocutori delle associazioni datoriali delle cooperative e accusate di consentire trattamenti pregiudizievoli dei soci-lavoratori[18]. Simili considerazioni hanno indotto gran parte della dottrina[19] a giudicare gravemente incostituzionale tale norma per contrarietà all’art. 39 Cost., ritenendo che la questione sulla provvisorietà di tale disposizione non corrispondesse a verità, in quanto non sussiste nessuna “completa attuazione della normativa in materia di socio lavoratore di società cooperative”[20] da portare a termine, avendo già il legislatore dato seguito anche alle leggi delega. Tale norma, dunque, avrebbe il carattere della definitività, pur dubbia,  e avrebbe come risultato una selezione delle associazioni sindacali in grado di stipulare contratti collettivi assolutamente contraria al principio di libertà sindacale. Altri hanno ritenuto invece la norma nel senso, costituzionalmente orientato, di ritenere tali contratti collettivi mero “parametro esterno”[21] a cui la legge fa riferimento per dare contenuto alla previsione legale. Qualche pronuncia di merito ha ritenuto che sussista in questa sede un contrasto tra valori costituzionali in quanto: “non si vuole sostenere che soltanto le sigle sindacali con maggiore rappresentatività possono legittimamente stipulare contratti collettivi e definire trattamenti retributivi: l’art. 39 della Costituzione garantisce la piena libertà sindacale, ma è ovvio che ciò non può avvenire in contrasto con il diritto del singolo, intangibile da qualunque organizzazione sindacale, di percepire la giusta retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost.”[22] Tuttavia sono stati espressi anche numerosi pareri di merito che riconoscono la perfetta idoneità delle associazioni di settore a stipulare i contratti rilevanti per la legge 142/2001.[23] Ovviamente la principale conseguenza del panorama giurisprudenziale diviso è lo smarrimento e l’incertezza delle società, che non sanno a quale contratto collettivo possono fare riferimento, optando, nel dubbio per il più oneroso, certi così di evitare sanzioni successive e contrasti con le associazioni sindacali, colpevoli, in questo caso, di un sottile ricatto.

Nessun punto fermo in materia è stato messo in materia dalla Corte Costituzionale con la sentenza 59/2013[24], che era stata invocata dal tribunale di Lucca sul contrasto dell’art. 7 cm. 4 d.l. 248/2007 con l’art. 39 della Costituzione. Il giudice a quo asseriva che: “detta disposizione attribuirebbe efficacia erga omnes a contratti collettivi di tipo “normativo” e non semplicemente ad “accordi gestionali” (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 268 del 1994)” e quindi contrasterebbe con il dettato costituzionale. L’INPS, parte convenuta, sostenne la provvisorietà della disciplina e la sua conformità al 36 Cost. e “sottolinea come il legislatore abbia implicitamente previsto un’efficacia temporalmente limitata della disposizione censurata, pur senza l’individuazione di un termine certo. Inoltre, lo stesso legislatore non avrebbe previsto alcuna efficacia erga omnes di una contrattazione collettiva rispetto ad un’altra, essendosi limitato a prevedere – con riferimento ai soli aspetti retributivi e al fine di garantire il diritto inviolabile del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del proprio lavoro ed, in ogni caso, sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa – che, a parità di attività lavorativa esercitata, la contrattazione collettiva, che assicura una retribuzione più elevata, sottoscritta dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria economica dove opera il datore di lavoro, costituisca parametro retributivo non derogabile verso il basso”. La cooperativa ricorrente aveva richiamato una sentenza della corte che statuiva “una legge che cercasse di conseguire il risultato della efficacia obbligatoria erga omnes per tutti gli appartenenti alla categoria alla quale il contratto collettivo si riferisce in maniera diversa da quella stabilita dall’art. 39 Cost. sarebbe palesemente illegittima, la norma censurata violerebbe il parametro costituzionale sopra indicato, in quanto: a) attribuirebbe efficacia “erga omnes” a contratti collettivi di tipo “normativo” e non semplicemente ad “accordi gestionali” (è citata, al riguardo, la sentenza n. 268 del 1994); b) l’attribuzione di tale efficacia obbligatoria erga omnes, al di fuori dei requisiti – soggettivi e procedurali – stabiliti dall’art. 39 Cost., prescinderebbe totalmente da qualsiasi valutazione in ordine al rispetto o meno, da parte del diverso contratto collettivo nazionale di lavoro applicato, dei precetti di cui all’art. 36 Cost.; c) avrebbe carattere solo apparentemente transitorio, non individuando alcun limite temporale preciso di efficacia”[25], tuttavia il giudice costituzionale ha preferito abbracciare la tesi della Presidenza del Consiglio dei Ministri, costituita in giudizio secondo la quale “la normativa pertinente alla determinazione della retribuzione da assumere quale base di calcolo dei contributi previdenziali (e, quindi, nel quadro del rapporto previdenziale) si rinviene non già nella norma censurata, ma nell’art. 1, comma 1, del decreto-legge 9 ottobre 1989, n. 338 (Disposizioni urgenti in materia di evasione contributiva, di fiscalizzazione degli oneri sociali, di sgravi contributivi nel Mezzogiorno e di finanziamento dei patronati), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 dicembre 1989, n. 389, nonché nell’art. 2, comma 25, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), e nell’art. 3, comma 4, del decreto legislativo 6 novembre 2001, n. 423 (Disposizioni in materia di contribuzione previdenziale ed assistenziale per i soci di cooperative, a norma dell’articolo 4, comma 3, della legge 3 aprile 2001, n. 142)”[26], concludendo che “la prima norma (quella riportata sopra, ndr) – nell’individuare la retribuzione imponibile a fini previdenziali o assistenziali, nel caso di pluralità di contratti intervenuti per la medesima categoria – attiene al rapporto previdenziale tra il datore di lavoro (società cooperativa) e l’ente previdenziale, cioè al rapporto oggetto dei giudizi a quibus, mentre il denunziato art. 7, comma 4, concerne il rapporto di lavoro tra società e socio lavoratore, con il relativo profilo retributivo, rapporto che non risulta in discussione nei detti giudizi.”[27]

In questa occasione, in definitiva, anche il giudice costituzionale si è astenuto dal pronunciarsi sulla questione, lasciando invariato il confuso panorama normativo. È auspicabile che in un prossimo giudizio tale norma sia censurata, lasciando di nuovo spazio alla libertà sindacale di quelle associazioni tipiche del settore cooperativo che più sono adatte alla regolamentazione del loro settore.

Anche senza mutare la disciplina vigente, potrebbe essere sufficiente un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, anche in linea con quanto già statuito dalla Corte di Cassazione e dal legislatore, nel senso di valutare caso per caso quale sia il sindacato comparativamente più rappresentativo nel settore cooperativo per quella categoria merceologica, fatto non assumibile come notorio. Infatti in presenza di due contratti collettivi per lo stesso gruppo professionale il legislatore attribuisce ad uno dei due il compito di essere comparativamente più rappresentativo per quello che riguarda l’applicazione di una norma legale come ad esempio la determinazione dell’obbligo contributivo che parte dalle retribuzioni come parametro principale. La comparazione va effettuata di volta in volta sulla base degli indici circa la consistenza numerica, la diffusione territoriale e la partecipazione effettiva relazioni industriali dell’azienda.

Come di consueto, risulta particolarmente controversa la disciplina previdenziale, regolata da una moltitudine di norme a partire dal R.D. 1442/1924[28] alla più recente circolare interpretativa 10310/2012 del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale. In questo “caos” normativo in cui le tutele stratificate lasciano grande spazio interpretativo agli interpreti si è anche inserita una giurisprudenza di merito e di legittimità estremamente controversa.

Limitando la ricerca al campo normativo possiamo senz’altro registrare un mutamento di indirizzo operato dalla l. 142/2001 rispetto al precedente regime speciale offerto dal legislatore alle società cooperative, che, riconoscendone la peculiarità, assimilava alle altre società ai fini previdenziali, ma non ai fini fiscali, essendo costituito il ricavo dei soci dai ristorni, per definizione non imponibili. La cooperativa è dunque considerata “datore di lavoro”[29] dei soci ai soli fini previdenziali, prendendo come base imponibile della contribuzione il trattamento previsto dai contratti collettivi della categoria in esame, così come previsto dall’ art. 389/1989. Come già ricordato la Corte Costituzionale è intervenuta in seguito a confermare la legittimità di tale sistema[30], ma in un sistema che comunque riconosceva la peculiarità delle vicende cooperative.

Come ulteriore riconoscimento della diversità delle situazioni oggetto di disciplina era prevista la possibilità, per particolari tipi di cooperative, (facchinaggio, trasporto, vigilanza, ecc.) di effettuare la contribuzione su un imponibile convenzionale diversificato a seconda delle voci contributive[31].

Coerentemente al processo di assimilazione della disciplina del rapporto di lavoro tra socio e cooperativa a quella del lavoro subordinato e alla ratio di eliminare le alterazioni alla concorrenza derivanti dal diverso costo del lavoro[32], il legislatore ha posto in questa direzione anche il sistema previdenziale statuendo che fosse regolato dai principi di: “a) equiparazione della contribuzione previdenziale e assistenziale dei soci lavoratori di cooperativa a quella dei lavoratori dipendenti da impresa;  b)  gradualità,  da attuarsi anche tenendo conto delle differenze settoriali  e territoriali, nell’equiparazione di cui alla lettera a) in un periodo non superiore a cinque anni;” (art. 4 L. 142/2001), inoltre “I  trattamenti economici dei soci lavoratori con i quali si é instaurato  un  rapporto  di tipo subordinato, ad eccezione di quelli previsti dall’articolo 3, comma 2, lettera b), sono considerati, agli effetti previdenziali, reddito da lavoro dipendente” e quindi imponibili, fatta eccezione, come già chiarito, per gli emolumenti corrisposti a titolo di ristorno, costituendo essi il vantaggio mutualistico tipico della cooperativa, restando essi non imponibili ai fini previdenziali.

[1] Corte cost. 30 Dicembre 1998, n. 451 – che ha coniato l’espressione;

[2] Cass. 28 Agosto 2004, n° 17250, in D&L – Riv. Crit. Dir. Lav., 2005, pag. 208;

[3] Art. 4, l. 142/2001;

[4] Cass. civ., Sez. lav., 4 Dicembre 2013, n. 27138;

[5] Questa espressione in un intervista al direttore di “Repubblica”, SCALFARI, E., per giustificare la stagione della “conflittualità permanente”. Per l’intervista completa consultare http://www.qdrmagazine.it/2011/10/25/33_lama-(1).aspx; tale teoria è ancora parzialmente sostenuta da parte della dottrina, ad esempio da ICHINO P. cfr. http://www.pietroichino.it/?p=17554 ; in merito alla questione riportata alla cooperativa cfr. RICIPUTI L., La prestazione lavorativa del socio: questioni aperte e casi controversi, Riv.Coop., n. 3/2008, pag. 157;

[6] SPOLVERATO G.- PIOVESANA A., Trattamento economico del socio subordinato di cooperativa, Dir.Prat.Lav., n. 21/2008, pag. 1213;

[7] VALLEBONA A., L’incostituzionale stravolgimento del lavoro in cooperativa, cit., pag. 814;

[8] ZOLI C., Le modifiche alla riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in CARINCI, M.T. (a cura di), La legge delega in materia dì occupazione e mercato del lavoro, Ipsoa, Milano, 2003, pag. 283;

[9] Corte Cost. 20 Luglio 1992, n. 342;

[10] MARINELLI M., Il diritto alla retribuzione proporzionata e sufficiente: problemi e prospettive, Arg.Dir.Lav., 2010,1, pag. 86;

[11] Pur inedito, ritengo opportuno inserire questo geniale neologismo del Prof. B. Sassani, esposto nel convegno “Principi di giustizia processuale in un mondo che cambia”, 19 Marzo 2014, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, che ha definito “nomorrea” la spasmodica tendenza del legislatore a produrre norme con la sola “speranza” che vengano poi osservate dai consociati; e quando questo non accade, si limita a produrre altre norme;

[12] Circ. Min. Lav. 34/2002, cit.;

[13] Circ. Min. Lav. 34/2002, cit.;

[14] D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, convertito in L. 31/2008;

[15] Protocollo “cooperazione” 10 ottobre 2007, in http://www.legacoopsocialisardegna.it/back _end/file_documentazione/Protocollo%20Ministro%20lavoro%20-%20Cooperazione%20%20OOSS%2010%20 ottobre%202007.pdf;

[16]Prot. 25/I/0018931, 9 Novembre 2010, in http://www.uil.it/cooperazione/circ33-10.pdf;

[17] BRILLANDI N., Socio lavoratore. La retribuzione è quella del CCNL “comparativamente più rappresentativo” (art. 7, comma 4, D.L. n. 248/2007), Lav.Prev. Oggi, 2008, pag. 605-606;

[18] A questo proposito vale la pena ricordare che tali associazioni sindacali, come le altre, sono composte, e gli organi direttivi sono eletti, da soci lavoratori iscritti, che, come gli altri lavoratori, si guardano bene da sacrificarsi inutilmente. Se consentono ad una deroga in pejus del trattamento economico, lo fanno in vista di una situazione oggettiva di difficoltà aziendale, che ben conoscono nella veste di soci.

[19] ClNELLI M. – NICOLINI C.A., La fine anticipata della XV legislatura, in Riv.It.Dir.Lav., IlI, 2008, pag. 85; PUTRIGNANO V., Retribuzione proporzionata e sufficiente e contratto collettivo: un primo arresto giurisprudenziale sui c.d. contratti pirata, Dir.Rel.Ind., n. 3/2001, pag. 786-787; SPOLVERATO G. – PIOVESANA A., Trattamento economico del socio subordinato di cooperativa, Dir.Prat.Lav., n. 21/2008, pag. 1215

[20] Art. 7 cm 4 D.L. 248/2007;

[21] IMBRIANI L., Il socio lavoratore di cooperativa, cit., pag. 191;

[22] Trib. Torino, 14 ottobre 2010 , rip. in IMBRIANI L., Il socio lavoratore di cooperativa, cit., pag. 193, nota 294; dello stesso tenore Trib. Torino 4237/2011; Trib. Arezzo 453/2008;

[23] Trib. Torino 3998/2008, rip. in IMBRIANI L., Il socio lavoratore di cooperativa, cit., pag. 193, nota 296.

[24] Corte Cost. 59/2013, in http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2013&numero=59;

[25] Corte Cost. 106/1962, in http://www.giurcost.org/decisioni/1962/0106s-62.html;

[26] Corte Cost. 29 Marzo 2013, n. 59;

[27] Corte Cost. 29 Marzo 2013, n. 59;

[28] Cass. civ. Sez. Un., 26 Luglio 2004, n. 13967: “Ritengono le Sezioni unite che la detta soluzione legislativa valga non solo pro futuro ma anche, a causa della sua evidente funzione ordinativa e chiarificatrice, per dissipare le incertezze interpretative generate col passar del tempo dall’art. 2, terzo comma, r.d. n. 1422 del 1924. (…) Le incertezze interpretative vanno perciò risolte attraverso il principio di diritto che supera la distinzione fra lavori assunti dalla società per conto terzi e lavori rientranti nello scopo mutualistico e che attribuisce a ciascun socio lavoratore la tutela previdenziale, e la contribuzione, propria del tipo di lavoro effettivamente prestato. La sentenza ora impugnata ha attribuito all’Inps la contribuzione obbligatoria propria dei lavoratori subordinati soltanto a quelli, dei numerosi soci impiegati dalla cooperativa in varie forme, che risultavano – secondo un accertamento ed una valutazione dei fatti incensurabile nel giudizio di legittimità – aver prestato opere in regime di subordinazione.”

[29] Cass. civ. Sez. lav., 10 Dicembre 2013, n. 27508: “sono da considerare ai fini previdenziali come datrici di lavoro rispetto ai soci assegnati a lavori dalle stesse assunti, con la conseguenza dell’assoggettamento a contribuzione previdenziale presso la gestione lavoratori dipendenti dei compensi corrisposti ai propri soci che abbiano svolto attività lavorativa, indipendentemente dalla sussistenza degli estremi della subordinazione”. Cfr. Cass. Civ. 9707/2009;

[30] Cass. 20 Luglio 1992, n. 342;

[31] D.P.R. n. 602/70; D.M. 3 dicembre 1999;

[32] VALLEBONA, A., Il trattamento economico e previdenziale dei soci di cooperativa, in MONTUSCHI, L.-TULLINI, P. (a cura di), Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato, Giappichelli, Torino, 2002, pag. 48;

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Riccardo Fratini
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Riccardo Fratini

Un pensiero su “Il trattamento previdenziale del socio di cooperativa

  1. se io sono quello che devo pagare pero sono dipendente come tale mi comporterò io o dato le dimissioni questa coop e in affitto da azienda non a soldi ora vera liquidata sarà un successo per inps che pagherà le liquidazioni e disoccupazione questa coop anno distrutta loro

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