L’AZIENDA SOTTO SEQUESTRO DEVE PAGARE COME SE CONTINUASSE L’ATTIVITÀ

Corte Suprema di Cassazione – Sequestro

Sez. Lav., 11 novembre 2014, n. 23984 – Pres. Coletti De Cesare – Cons. Venuti – Cons. D’Antonio Cons. Patti – Rel. Ghinoy

Licenziamento collettivo – contributo dell’azienda all’ INPS – esenzione – procedure concorsuali – negato in ipotesi diverse

L’esenzione dal contributo dell’azienda al fondo INPS di cui all’art. 5 c. 4 L. 223/1990 è dovuta solo nell’ipotesi di impossibilità di continuazione dell’attività aziendale dovuta a procedure concorsuali, ma non nelle altre ipotesi di impossibilità oggettiva di continuazione compreso il sequestro degli impianti da parte dell’autorità giudiziaria.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

Con la sentenza n. 637 del 2012 la Corte d’Appello di Palermo, riformando parzialmente la sentenza del Tribunale, riduceva l’importo dovuto all’Inps dalla Distilleria Bertolino s.p.a. richiesto con la cartella esattoriale notificata al 19/6/2001 dall’agente della riscossione Serit Sicilia s.p.a. A motivo della decisione, per quello che rileva del presente giudizio di legittimità, la Corte riteneva che la società dovesse essere esonerata dal pagamento del contributo per la mobilità ai sensi del terzo comma della L. n. 223 del 1991, art. 3, considerato che non aveva potuto continuare l’attività produttiva a causa del sequestro dello stabilimento disposto dall’autorità giudiziaria nel corso di un procedimento per inquinamento ambientale, cui aveva fatto seguito, fallite le trattative sindacali onde addivenire ad ipotesi alternative, il licenziamento di tutti i dipendenti. Argomentava la Corte che nel caso, ricorrendo un’ipotesi di assoluto fermo produttivo, la situazione involgeva la totalità dei dipendenti senza che potessero trovare applicazione i criteri previsti dall’art. 4, e dalla L. n. 223 del 1991, art. 24, e senza che potesse ritenersi esigibile il ricorso alle procedure concorsuali.

Per la cassazione della sentenza l’Inps ha proposto ricorso, affidato ad un solo motivo, cui ha resistito con controricorso la distilleria Bertolino s.p.a.; si è altresì costituita con controricorso Riscossione Sicilia s.p.a., già Serit Sicilia s.p.a., che ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

 

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

 

  1. Deve preliminarmente rilevarsi l’inammissibilità del controricorso e della memoria ex art. 378 c.p.c., depositate da Riscossione Sicilia s.p.a..

Questa Corte ha infatti chiarito che nel giudizio di opposizione a cartella esattoriale notificata dall’istituto concessionario per la riscossione di contributi previdenziali pretesi dall’I.N.P.S., la legittimazione passiva spetta unicamente a quest’ultimo ente, quale titolare della relativa potestà sanzionatoria, con la conseguenza che l’eventuale domanda in opposizione, attinente a tale oggetto, formulata contestualmente anche nei confronti del concessionario della gestione del servizio di riscossione tributi, deve intendersi come mera “denuntiatio litis” ” (prevista dal D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal D.L. n. 209 del 2002, conv. in L. n. 265 del 2002) che non vale ad attribuirgli la qualità di parte, neanche nei successivi gradi, con la derivante inammissibilità del controricorso proposto, come nella fattispecie, nel giudizio di cassazione (Cass. Sez. L, n. 11274 del 16/05/2007 e n. 11687 del 12/05/2008). Ciò tanto più in quanto non vi sono nel caso domande formulate nel confronti del concessionario, alle quali questi abbia interesse a contraddire.

  1. Occorre inoltre disattendere l’eccezione di improcedibilità del ricorso sollevata dalla Distilleria Bertolino s.p.a. a p. 6 del controricorso. Essa trae le mosse dall’inciso a p. 12 del ricorso dell’Inps ove si preannuncia il deposito di “copia irritualmente notificata della sentenza”. Argomenta la parte che, ove dovesse emergere che la sentenza era stata notificata e che di conseguenza è decorso il termine breve per l’impugnazione previsto dall’art. 325 c.p.c., il ricorso sarebbe intempestivo.

Deve però rilevarsi che nessuna copia di sentenza “irritualmente notificata” è stata depositata, nè risulta l’esistenza di una notificazione irrituale, come è confermato dalla formulazione dell’eccezione in termini meramente ipotetici. Non si ravvisa quindi nessuna causa di improcedibilità o inammissibilità del ricorso (secondo le diverse acceziom utilizzate da Cass. S.U. Sez. U, Ord. n. 9005 del 16/04/2009 e Sez. L, n. 7469 del 31/03/2014).

  1. Con l’unico motivo di ricorso, l’Inps lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 3, comma 3, art. 5, comma 4, e art. 24, comma 3. Sostiene che l’esenzione dal pagamento del contributo di mobilità sarebbe previsto dalla L. n. 223 del 1991, art. 3, comma 3, solo per le procedure concorsuali. Aggiunge che la correlazione dell’esenzione all’impossibilità della continuazione dell’attività da parte dell’organo della procedura trova fondamento nel fatto che l’organo non è stato il datore di lavoro che ha portato alla decozione la società, mentre nel caso di specie il provvedimento di sequestro è connesso ad un comportamento dell’imprenditore che ha posto in essere le premesse per il provvedimento di sequestro.
  2. Il ricorso è fondato.

La L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 4, (abrogato con effetto dal 1 gennaio 2017 dalla L. n. 92 del 2012, art. 2, comma 71, lett. a)) prevede che “per ciascun lavoratore posto in mobilità l’impresa è tenuta a versare alla gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali, di cui alla L. 9 marzo 1989, n. 88, art. 37, in trenta rate mensili, una somma pari a sei volte il trattamento mensile iniziale di mobilità spettante al lavoratore.

Tale somma è ridotta alla metà quando la dichiarazione di eccedenza del personale di cui all’art. 4, comma 9, abbia formato oggetto di accordo sindacale”. L’importo a carico delle imprese che anteriormente alla mobilità non abbiano usufruito del trattamento straordinario di integrazione salariale è poi previsto dall’art. 24 comma 3 (come sostituito dal D.L. 20 maggio 1993, n. 148, art. 8, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 19 luglio 1993, n. 2369) nella misura superiore di nove volte il trattamento iniziale di mobilità spettante al lavoratore, ridotto a tre volte nei casi di accordo sindacale.

L’art. 3, della stessa legge, intitolato “Intervento straordinario di integrazione salariale e procedure concorsuali” (abrogato a decorrere dal 1 gennaio 2016 dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 2, comma 70, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 46 bis, comma 1, lett. h), convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134) al comma 3, dispone inoltre che: “Quando non sia possibile la continuazione dell’attività, anche tramite cessione dell’azienda o di sue parti, o quando i livelli occupazionali possono essere salvaguardati solo parzialmente, il curatore, il liquidatore o il commissario hanno facoltà di collocare in mobilità ai sensi dell’art. 4, ovvero dell’art. 24, i lavoratori eccedenti. In tali casi il termine di cui all’art. 4, comma 6, è ridotto a trenta giorni. Il contributo a carico dell’impresa previsto dall’art. 5, comma 4, non è dovuto”.

Il tenore letterale della disposizione chiarisce che la fattispecie che determina il diritto all’esenzione si verifica quando, per la constatata impossibilità di continuazione dell’attività o di salvaguardia dei livelli occupazionali, gli organi di una procedura concorsuale dispongano la collocazione del personale eccedente.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno rilevato che la norma attribuisce agli organi della procedura concorsuale un eccezionale potere di gestione dell’impresa, ovvero il potere di valutare in prospettiva la possibilità di continuare (anche tramite la cessione dell’azienda) l’attività imprenditoriale e, in caso negativo, di decidere di collocare in mobilità il personale dipendente (così Cass. S.U. n. 3597/2003).

A tale potere di gestione corrisponde nella seconda ipotesi l’esonero dall’obbligo di pagare il relativo contributo. La previsione si giustifica nell’ottica della tutela degli interessi socialmente rilevanti quali sono quelli della generalità dei creditori a non vedere un ulteriore incremento del passivo, e le ripercussioni che essa produce sulla finanza pubblica trovano una garanzia nel controllo giudiziale preventivo cui la legge assoggetta le scelte adottate nell’ambito delle procedure concorsuali.

  1. La disposizione ha portata eccettiva della previsione che stabilisce l’obbligo di pagamento per la generalità delle imprese i cui lavoratori sono collocati in mobilità (nelle diverse misure sopra indicate) sicchè l’estensione dell’esenzione ad ipotesi in cui non vi sia alcuna procedura concorsuale e la mobilità sia disposta dallo stesso imprenditore costituisce un’interpretazione analogica, non consentita ai sensi dell’art. 14 preleggi.
  2. La soluzione adottata dalla Corte di merito, secondo la quale la previsione dovrebbe trovare applicazione in tutte le ipotesi nelle quali vi sia un’impossibilità totale di continuazione dell’attività che non lascia margini di decisione all’imprenditore, a prescindere dall’esistenza di una procedura concorsuale, presenta peraltro rilevanti problemi applicativi derivanti dall’individuazione dei relativi presupposti, che conduce a risultati diversi a seconda del momento al quale si risale nel tempo nel valutare le cause della crisi (potendosi discutere, ad esempio e con riferimento alla fattispecie, se rilevi il sequestro o le scelte imprenditoriali che lo hanno determinato).
  3. La natura eccezionale e di stretta interpretazione della norma è stata peraltro già ritenuta da questa Corte, che ha ritenuto che, proprio in ragione della limitazione della decisione agli organi concorsuali, non spettasse il beneficio dell’esonero dal pagamento del contributo di mobilità, previsto dalla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 3, comma 3, in un caso in cui la procedura per il licenziamento collettivo era stata avviata dall’imprenditore, che aveva contestualmente richiesto l’ammissione dell’impresa al concordato preventivo (Cass. Sez. L, n. 13625 del 2014, Cass. n. 19422 del 18.12.2003).
  4. Il principio di diritto che deve quindi essere enunciato ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, è il seguente: “L’esenzione dal pagamento del contributo di mobilità prevista dalla L. n. 223 del 1991, art. 3, comma 3, si applica nella sola ipotesi in cui il licenziamento collettivo sia disposto dagli organi di una procedura concorsuale”.
  5. Non essendosi la Corte d’Appello attenuta a tale principio, la sentenza dev’essere cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di Palermo in diversa composizione, che nel nuovo esame si atterrà al principio di diritto sopra enunciato, ed anche per le spese.

PQM

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte d’Appello di Palermo in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 18 settembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2014

Oltre al danno penale, la beffa civile

 

La sentenza commentata nega l’esenzione dal contributo di cui all’ art. 5 c. 4, L. 223/1990 all’azienda oggetto di provvedimento di sequestro degli impianti che, per tale motivo, senza sua colpa, non abbia potuto continuare l’attività. La sentenza eccepisce che “la previsione dovrebbe trovare applicazione in tutte le ipotesi nelle quali vi sia un’impossibilità totale di continuazione dell’attività che non lascia margini di decisione all’imprenditore, a prescindere dall’esistenza di una procedura concorsuale, presenta peraltro rilevanti problemi applicativi derivanti dall’individuazione dei relativi presupposti, che conduce a risultati diversi a seconda del momento al quale si risale nel tempo nel valutare le cause della crisi (potendosi discutere, ad esempio e con riferimento alla fattispecie, se rilevi il sequestro o le scelte imprenditoriali che lo hanno determinato)”. Ma tale orientamento non appare condivisibile. Prima di tutto non esiste un principio giuridico di interpretazione della legge, contemplato dalle disposizioni preliminari sulla legge in generale, che si riferisca all’ “imprevedibilità” dell’applicazione delle norme come criterio per interpretarle in modo restrittivo. Invero l’interprete può adottare il criterio letterale o logico (art. 12 c. 1 preleggi) oppure, quando non sia possibile, il criterio dell’analogia legis o iuris (art. 12 c. 2 e 3 preleggi).

In secondo luogo tale statuizione non rispetta la ratio della norma stessa che stabilisce l’esenzione che, come afferma la stessa sentenza, è quella di non accrescere la situazione debitoria di una società che comunque non potrà proseguire l’attività, arrecando unicamente danno ai debitori. Tale finalità è confermata espressamente dalla lettera della legge che stabilisce l’esenzione dal detto contributo “quando non sia possibile la continuazione dell’attività, anche tramite cessione dell’azienda o di sue  parti,  o  quando  i  livelli occupazionali possono essere  salvaguardati  solo  parzialmente” (art. 3 c. 3). E in questa ipotesi rientra senza dubbio l’impossibilità oggettiva di continuare l’attività aziendale per espressa disposizione dell’autorità giudiziaria.

L’unico argomento assorbente che è stato correttamente addotto dalla sentenza riguarda la eccezionalità della norma in questione che, di conseguenza, deve essere interpretata restrittivamente e non analogicamente. Dunque tale assunto rende corretta la decisione definitiva della Suprema Corte, che avrebbe potuto essere motivata solo con questa essenziale argomentazione.

Tuttavia dobbiamo rilevare, dal punto di vista sostanziale, che costituisce una vera e propria ingiustizia, in spregio al principio di presunzione di innocenza ex art. 27 Cost., il fatto che un’impresa, senza giudicato, sia costretta al fallimento dalla pesante mano della Giustizia Penale. Per lo meno sarebbe decoroso se non fossero da essa esatti i contributi come se l’attività avesse potuto continuare, arrecando all’imprenditore oltre al danno penale, anche la beffa civile.

Riccardo Fratini

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