Cooperativa in Italia dal codice civile alla legge 142 del 2001

Cooperativa in Italia dal codice civile alla legge 142 del 2001. L’art. 45 della costituzione italiana sancisce che la Repubblica “riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata.” Ma grande confusione regna e ha regnato sulla corretta definizione di cooperativa e in relazione a questa confusione scientifica ha prosperato anche una confusione normativa, che ha troppo spesso incentrato l’attenzione del legislatore sul profilo lavoristico dell’istituto, anziché su quello proprio collegato al rapporto sociale tra i cooperanti.

Un importantissimo contributo è stato dato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 408/1989: “alla protezione costituzionale della cooperazione si attribuisce una finalità che va oltre la generica tutela di categorie produttive deboli, in quanto si estende al riconoscimento e alla promozione di una forma di produzione alternativa a quella capitalistica”[1]. Tale  funzione sociale ha conseguenze dirompenti, se ben gestita, sul panorama economico-sociale. Come è stato correttamente affermato in dottrina: “La cooperazione, impresa e movimento sociale, è la prova che l’economia è il frutto della storicità personalistica ed è un complesso di relazioni tra persone, piuttosto che tra le merci, reificate ed alienanti”[2].

Per un periodo molto lungo, cioè fino alla riforma operata con L. 142/2001, la cooperazione è stata regolata unicamente dalle norme del libro quinto del codice civile (artt. 2511-2548) e dalla legge Basevi.

La disciplina codicistica assimila sostanzialmente, proseguendo nella scelta del codice di commercio del Regno, la cooperativa alla società per azioni, estendendo, per quanto compatibili, tutte le disposizioni della materia. Le principali differenze rispetto alla società per azioni, che quindi sono trattate specificamente dal codice, attengono al capitale variabile (art. 2511 cc.), allo scopo mutualistico (art. 2512 cc.), al principio di parità di trattamento nei rapporti con i soci (2516 cc.), alle quote o azioni (art. 2525 cc.), al voto per teste (art. 2538 cc.) e al recesso e all’esclusione del socio (artt. 2532-2533 cc.). La società cooperativa infatti ha capitale variabile, in quanto l’ingresso di un nuovo socio ne determina l’accrescimento senza necessità di modifica statutaria; lo scopo mutualistico, diversamente da quello commerciale, consiste nel procacciare sul mercato occasioni di lavoro che i singoli soci non sarebbero stati in grado di intercettare sul mercato e, di conseguenza, ripartirne equamente gli utili mediante ristorno, qualificando gli introiti dei soci lavoratori come ripartizione dei ricavi sociali piuttosto che come retribuzione[3]. Tale disciplina codicistica è stata poi modificata dal d. lgs. 6/2003, che ha novellato, tra gli altri, gli artt. 2512 e 2513 ed ha inserito la categoria di “mutualità prevalente”, delimitando quali sono le società che possono definirsi “davvero” cooperative e che quindi meritano la gran parte delle tutele speciali previste per questa forma associativa: sono quelle che “svolgono la loro attività prevalentemente in favore dei soci, consumatori o utenti di beni o servizi”, che “si avvalgono prevalentemente,  nello  svolgimento  della  loro attività, delle prestazioni lavorative dei soci” oppure “si avvalgono prevalentemente,  nello  svolgimento  della  loro attività, degli apporti di beni o servizi da parte dei soci”.

Un’altra rilevante differenza è costituita dal voto per teste, che svaluta l’aspetto patrimoniale della società in favore della democraticità della struttura e del principio di parità tra i soci.

Più diffusa trattazione merita invece l’istituto dell’esclusione del socio, data l’intima connessione che sussiste tra tale disciplina e il licenziamento del socio lavoratore di cooperativa. Già la cassazione, infatti, aveva riconosciuto la non riconducibilità della fattispecie estintiva del rapporto allo schema del licenziamento individuale[4]. la Corte[5] ha confermato tale inquadramento escludendo la competenza del giudice del lavoro e il regime del licenziamento quando la fine del rapporto sia conseguenza dell’esclusione del socio dalla società. Il rapporto di lavoro del socio risulta dunque garantito dalle norme sull’esclusione, data la scarsa probabilità che gli altri soci scelgano il più tortuoso procedimento del licenziamento individuale e successiva estinzione del rapporto sociale che richiede due procedimenti distinti, anche se con espressa esclusione dell’art. 18 della L.300/70.

Proprio per la maggiore tutela del socio di cooperativa, il legislatore ha ristretto la possibilità di escluderlo dalla società a ipotesi tassative legislativamente elencate. Può essere escluso innanzi tutto il socio moroso “che non esegue in tutto o in parte il pagamento delle quote o delle azioni sottoscritte” (2531 c. c.). le altre ipotesi sono previste dall’ art. 2533: “1) nei casi previsti dall’atto costitutivo; 2) per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge, dal contratto sociale, dal regolamento o dal rapporto mutualistico; 3) per mancanza o perdita dei requisiti previsti per la partecipazione alla società;” il dispositivo in seguito menziona le ipotesi dell’art. 2286 c.c. cioè “l’interdizione, l’inabilitazione del socio” o “condanna ad una pena che importa l’interdizione dai pubblici uffici”, e la “sopravvenuta inidoneità a svolgere l’opera conferita”; e quelle dell’art. 2288 c.c.: “è escluso di diritto il socio che sia dichiarato fallito” o per “liquidazione della quota” da parte del creditore particolare del socio. L’esclusione è deliberata dagli amministratori o dall’assemblea, se lo prevede l’atto costitutivo, contro il provvedimento di esclusione il socio può proporre opposizione al tribunale entro sessanta giorni dalla notifica della delibera[6]. L’esclusione determina lo scioglimento di tutti i rapporto mutualistici pendenti.

Per quanto riguarda il licenziamento collettivo, l’art. 8 della L. 236/1993 ha esteso integralmente la disciplina lavoristica per consentire anche ai soci di usufruire degli ammortizzatori sociali[7], e tale estensione riguarda anche l’indennità di mobilità[8].

Il rapporto di lavoro può tuttavia terminare, anche indipendentemente dalla cessazione del rapporto sociale, con conseguente ammissibilità del provvedimento di licenziamento, nei casi residui di licenziamento ad nutum e, in particolare, nel caso di maturazione dei requisiti per la pensione di vecchiaia, ma non di altre prestazioni previdenziali[9].

In questo sistema, regolato prevalentemente dal codice, tuttavia, la situazione peculiare del socio lavoratore era stata regolata con l’estensione alla cooperazione di molte tutele del lavoro subordinato come orario di lavoro[10], mobilità e riduzione del personale[11], iscrizione alla lista speciale di mobilità senza indennità[12], sicurezza sul lavoro[13], garanzia dei crediti di lavoro in caso di insolvenza[14], trattamenti di disoccupazione[15] e tutele previdenziali[16]. La legislazione speciale in materia era quindi molto frammentata e necessitava di una riforma integrale, o, almeno, questo è quanto ritenne più opportuno il legislatore.

Il “cambio di rotta” della L. 142/2001

L’approvazione della l. 142/2001 intervenne alla fine della XIII legislatura, al termine di un travagliato iter parlamentare[17], modificando profondamente la proposta della “Commissione Zamagni”[18]. Un contributo molto recente[19] individua tra i principi cardine della riforma: “la coesistenza in capo al lavoratore, di due rapporti contrattuali distinti con la società cooperativa, vale a dire uno di società e uno di lavoro; la previsione di diritti individuali e collettivi dei soci lavoratori di cooperativa e l’applicazione di gran parte dello statuto dei lavoratori; la fissazione per la prima volta di parametri vincolanti di commisurazione della retribuzione e del compenso dovuti al socio lavoratore, che specificano la portata precettiva dell’art. 36 Cost. (…); l’individuazione del trattamento previdenziale (…); la centralità del regolamento interno (…); la definizione di una competenza giurisdizionale (rectius dell’attribuzione per materia e il conseguente rito applicabile) ripartita tra Giudice del lavoro e Giudice civile ordinario”.

La costituzione di un rapporto di lavoro “ulteriore” e i tipi di rapporto istaurabili

Il primo comma dell’art. 1 afferma che le disposizione della legge si applicano “alle cooperative  nelle quali il rapporto mutualistico abbia ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio, sulla base di previsioni di regolamento che definiscono l’organizzazione del lavoro dei soci”.

Secondo la Circolare del Ministero del Lavoro 34/2002 tale dispositivo andrebbe interpretato nel senso di far rientrare nell’ area di intervento non solo le cooperative di produzione e lavoro, ma anche tutte le altre cooperative, in quanto a venire in rilievo non sarebbe la tipologia di cooperativa classificata secondo la ragione sociale, ma il fatto che il rapporto mutualistico abbia ad oggetto la prestazione di attività lavorativa da parte del socio. Tale impostazione sembra inoltre confermata dalla dottrina[20], pur con eccezioni significative[21]. Sono invece sicuramente escluse le cooperative che non abbiano come ragione sociale la creazione di occasioni di lavoro per i soci, per cui non vi è commistione tra rapporto sociale e rapporto di lavoro.

Il secondo comma dell’articolo 1 dispone che “i soci lavoratori di cooperativa: a) concorrono  alla  gestione  dell’impresa  partecipando  alla formazione degli organi sociali e alla definizione della struttura di direzione e conduzione dell’impresa; b) partecipano alla elaborazione di programmi di sviluppo e alle decisioni   concernenti   le   scelte   strategiche, nonché alla realizzazione dei processi produttivi dell’azienda; c) contribuiscono   alla  formazione  del  capitale  sociale  e partecipano  al  rischio  d’impresa,  ai  risultati economici ed alle decisioni sulla loro destinazione; d)  mettono  a  disposizione  le  proprie capacità professionali anche  in  relazione  al  tipo  e  allo  stato dell’attività svolta, nonché alla quantità delle prestazioni di lavoro disponibili per la cooperativa stessa.”; con questo dispositivo il legislatore delinea chiaramente il socio lavoratore come “imprenditore di se stesso”, facendo gravare su di lui tutti i rischi e le responsabilità che normalmente spetterebbero al datore di lavoro. Questa coincidenza personale di funzioni denota chiaramente un’estinzione per confusione del conflitto tra datore e prestatore di lavoro, il che era proprio l’intenzione originale dei probi pionieri di Rochdale.

Detto questo, non si riesce a comprendere come si concili questo ruolo del socio con il comma 3, che recita: “Il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un ulteriore e distinto rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata non occasionale, con cui contribuisce comunque al raggiungimento degli scopi sociali. Dall’instaurazione dei predetti rapporti associativi e di lavoro in qualsiasi forma derivano i relativi effetti di natura fiscale e previdenziale e tutti gli altri effetti giuridici rispettivamente previsti dalla presente legge, nonché, in quanto compatibili con la posizione del socio lavoratore, da altre leggi o da qualsiasi altra fonte.”, norma che si pone in rotta di collisione con tutti gli orientamenti giurisprudenziali precedenti, e che è stata definita da qualcuno come asse portante della riforma[22] ed accoglie la così detta “teoria della duplicità dei rapporti”[23]. Si prevede infatti accanto al rapporto associativo un distinto e ulteriore rapporto di lavoro, anch’esso finalizzato al raggiungimento degli scopi sociali.

Emerge dunque la questione dei tipi di rapporto che sia possibile costituire con il socio lavoratore[24]. La norma indica espressamente la possibilità di costituire il rapporto “in forma subordinata o autonoma  o  in  qualsiasi  altra  forma,  ivi compresi i rapporti di collaborazione  coordinata  non  occasionale,  con  cui  contribuisce comunque  al  raggiungimento  degli scopi sociali” (art. 1, l. 142/2001). Mentre sono pacifiche infatti le definizioni di “forma subordinata”[25] e “autonoma”[26], per cui esistono  definizioni legislative corrispondenti, non sembra essere altrettanto chiara la nozione di “collaborazione coordinata non occasionale”. Se infatti questa locuzione ha richiamato, secondo la dottrina maggioritaria, il rapporto parasubordinato, non si può tuttavia ignorare il fatto inconfutabile che la locuzione utilizzata si discosta non lievemente da quella tradizionalmente utilizzata per indicare tale rapporto giuridico: “collaborazione coordinata e continuativa” (co.co.co.), questo anche in vista, con il senno di poi, della riforma “Biagi”[27] che ridusse la possibilità di costituire tale rapporto a poche tassative ipotesi, creando invece, per colmare il vuoto lasciato, l’istituto del contratto di collaborazione a progetto (co.co.pro.), istituto affine, ma concettualmente separato da quello precedentemente vigente. Chiarito questo panorama normativo c’è da chiedersi se la locuzione “rapporto coordinato non occasionale” voglia fare riferimento unicamente alla categoria dei co.co.co. allora in vigore, utilizzando una dicitura “creativa”,  oppure se, come sarebbe più consono, la l. 142/01 sia una norma speciale[28], rispetto a quella generale sulla parasubordinazione, che quindi non sarebbe travolta dalla successiva riforma del 2003, rendendo possibile, per le cooperative, la costituzione di collaborazione continuate non occasionali senza progetto anche dopo l’intervento del legislatore. Ad acclarare questa tesi della specialità dell’istituto ci sarebbe anche il seguito della norma, cioè che la forma utilizzata sia libera nella misura “con  cui  contribuisce comunque  al  raggiungimento  degli scopi sociali”, il che la rende speciale[29] rispetto alla parasubordinazione tradizionale, caratterizzata dalla parziale autonomia dall’organizzazione e dalle strutture aziendali. Tale opzione si accorderebbe molto bene con quella parte della dottrina[30] che ha espresso perplessità sulla configurabilità del lavoro a progetto nella società cooperativa, a causa della scarsa compatibilità di un lavoro a tempo comunque determinato con lo scopo sociale mutualistico; oggetto del rapporto ulteriore non potrebbe essere infatti l’ottenimento di un risultato circoscritto ad un progetto specifico o a specifiche fasi o programmi di lavoro, ma solo lo svolgimento appunto di un attività “non occasionale”, come sarebbe quella di collaborazione continuativa. Tale teoria, però, non è stata affatto messa in pratica, propendendosi di solito nell’esperienza concreta, ad applicare i principi della parasubordinazione a progetto anche nel lavoro in cooperativa. È, inoltre, pratica diffusissima[31], nelle contrattazione collettiva, che le parti prevedano la possibilità di istaurare contratti a progetto ex d.lgs. 276/2003, con sostanziale disconoscimento sia della specialità della situazione del socio lavoratore, sia dell’incompatibilità del progetto con lo scopo sociale mutualistico.

Per quanto concerne l’associazione in partecipazione non è condivisibile l’opinione di quella parte della dottrina[32] che sostiene che tale forma di istaurazione del rapporto sia vietata per incompatibilità con lo scopo mutualistico dell’art. 2552 c.c., al contrario invece, data anche la possibilità per la cooperativa di istaurare rapporti di lavoro subordinato con i non soci[33], questo istituto sarebbe più peculiare della mera subordinazione, in quanto, pur non conservando la partecipazione attiva alla vita sociale, l’associato in partecipazione rimane comunque legato al buon andamento dello scopo mutualistico dal proprio interesse a massimizzare i propri guadagni[34].

Proprio tale peculiarità del rapporto associativo dovrebbe ostare alla qualificazione di lavoratore subordinato per il prestatore di lavoro che compia il suo lavoro in adempimento del rapporto sociale, essendo lui stesso comproprietario della società per cui presta lavoro. Manca dunque un requisito essenziale della subordinazione: l’alienità dei mezzi di produzione[35]. Tale orientamento era stato confermato da un autorevole sentenza della Corte costituzionale[36] emanata in seguito a ordinanza del tribunale di Catania[37] che sollevava una questione sulla contrarietà della disciplina del fondo di garanzia del TFR all’art. 3 Cost. “considerato che il socio lavoratore di società cooperativa, pur prestando il proprio lavoro in base a un rapporto diverso dal contratto di lavoro, è caratterizzato da una posizione di debolezza economica verso la società analoga a quella del prestatore di lavoro subordinato nei confronti del datore: assimilazione confermata dalle leggi che estendono ai soci di cooperative di lavoro discipline del rapporto di lavoro, quali le leggi sull’orario di lavoro e sul riposo settimanale.” La corte ha dichiarato non fondata la questione asserendo che “per l’applicazione degli altri aspetti della tutela del lavoro, invece, e in particolare di quelli concernenti la retribuzione, assume rilievo non tanto lo svolgimento di fatto di un’attività di lavoro connotata da elementi di subordinazione, quanto il tipo di interessi cui l’attività è funzionalizzata e il corrispondente assetto di situazioni giuridiche in cui è inserita. Devono cioè concorrere tutte le condizioni che definiscono la subordinazione in senso stretto, peculiare del rapporto di lavoro, la quale è un concetto più pregnante e insieme qualitativamente diverso dalla subordinazione riscontrabile in altri contratti coinvolgenti la capacità di lavoro di una delle parti. La differenza è determinata dal concorso di due condizioni che negli altri casi non si trovano mai congiunte: l’alienità (nel senso di destinazione esclusiva ad altri) del risultato per il cui conseguimento la prestazione di lavoro è utilizzata, e l’alienità dell’organizzazione produttiva in cui la prestazione si inserisce.” Cioè quella che la dottrina ha definito “doppia alienità”[38]. Altra dottrina ha ravvisato invece nel rapporto tra cooperativa e socio “un tipo legale a sé stante di lavoro subordinato (distinto da quello di cui all’art. 2094 c.c. essenzialmente per la diversa struttura del nesso causale tra prestazione lavorativa e retribuzione)”[39]. In ogni caso la mancanza di tali caratteristiche aveva indotto dottrina e giurisprudenza[40] a leggere nella chiave sopra descritta l’istituto, con conseguente qualificazione degli introiti dei soci lavoratori come ripartizione dei ricavi sociali piuttosto che come retribuzione[41].

A questo proposito occorre osservare che la difesa della peculiare situazione giuridica della società cooperativa è un presupposto di ragionevolezza della disciplina, secondo il plurimillenario principio dell’adaequatio rei et intellectus[42]. È infatti necessario che gli istituti giuridici siano quanto più aderenti possibile alla realtà delle cose così da non fare parti eguali tra diseguali, che come disse un grande pensatore del secolo passato “è la cosa più ingiusta del mondo”[43]. Ma questa considerazione non può lasciare spazio all’adeguamento sistematico e sconsiderato del diritto alle prassi antigiuridiche troppo spesso praticate dal corpo sociale. La falsa cooperazione non si può né si deve combattere distruggendo la libertà dei singoli costituzionalmente garantita. Se ci sono cooperative finte, in cui di conseguenza gli interessi della società sono contrapposti a quelli dei soci (che non sono tutti i lavoratori, ma solo alcuni, o addirittura gruppi di potere esterni) queste, qualsiasi sia il tipo negoziale a cui ricorrano, non sono sostanzialmente cooperative, e quindi vanno trattate come normali società commerciali, ricordando sempre che uno dei tria principia iuris è il suum cuique tribuere[44]. Ma se viceversa ci sono delle cooperative che rispettano lo spirito e la finalità dell’istituto prescelto, non si vede come possa essere ad esse congeniale l’assimilazione forzosa a un regime giuridico espressamente rifiutato dai cooperanti, ma imposto dalla l. 142/2001. Contro questa interpretazione si è pronunciata certa parte della dottrina, asserendo che la legge avrebbe alla base una “presa d’atto”[45] della situazione sostanziale della preponderante diffusione della falsa cooperazione, definendo l’interpretazione avversata “tutta sbilanciata verso la cooperazione”[46].

Nell’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale in materia di disciplina del rapporto di lavoro tra cooperativa e socio si possono individuare tre fasi: una fase della preminenza del rapporto sociale su quello di lavoro, che costituiva una fattispecie residuale per il caso di dipendente non socio; una fase di riconoscimento del rapporto di lavoro ulteriore in un numero significativo di casi in via giurisprudenziale; fase di imposizione dell’obbligo di costituire un ulteriore rapporto di lavoro oltre a quello sociale per tutti i soci-lavoratori di cooperativa.

La prima fase fu caratterizzata, come già segnalato, dal progressivo riconoscimento in via legislativa di singole tutele del lavoro subordinato al socio-lavoratore. In questa fase la dottrina prevalente[47] riconobbe la natura straordinaria di tali estensioni, cui il legislatore provvedeva proprio a causa dell’ impossibilità di equiparare il rapporto sociale al rapporto di lavoro subordinato, sia per la diversa natura giuridica dello stesso, sia per la diversa situazione sostanziale che i due rapporti tutelano. Tale orientamento sembrava confermato anche dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, avendo essa affermato che le estensioni avvenute in via legislativa “riguardano aspetti della tutela del lavoro che non presuppongono il concetto stretto di subordinazione proprio del contratto di lavoro, ma hanno una ratio di tutela della persona del lavoratore comprendente tutti i casi di lavoro prestato, a qualunque titolo, in stato di subordinazione tecnico-funzionale, e quindi non solo la prestazione del socio di una società cooperativa di lavoro, ma anche la prestazione del socio d’opera di una società lucrativa di persone e dell’associato in partecipazione con apporto di lavoro”[48].

Le prestazioni lavorative dei soci erano qualificate dalla dottrina maggioritaria[49], dunque, come conferimenti dei soci nella società o al massimo come prestazioni accessorie (ex art. 2345), ma comunque rientranti nel rapporto associativo come adempimento del contratto sociale e rientranti nell’art. 45 Cost. con le tutele e le caratteristiche proprie di quel tipo societario.

In questa ottica di incompatibilità tra i due rapporti si innestavano alcune ipotesi eccezionali di rapporto di lavoro riconosciuto tra socio lavoratore e cooperativa: tipico esempio era il caso di rapporto simulato o in frode alla legge[50], cui si riconnetteva la conversione di diritto comune tipica dei negozi simulati, o nel caso in cui la sussistenza del rapporto ulteriore sia prevista dallo statuto della cooperativa[51] o, in ultima ipotesi, nel caso di violazione del divieto di interposizione fittizia[52].

In tal caso però l’accertamento di rapporto subordinato era posto a carico del datore persona fisica, con tutte le conseguenze in campo fallimentare e di responsabilità.

La seconda fase prese impulso dalla giurisprudenza, che negli anni novanta[53], a causa dell’inefficacia del precedente regime nell’individuare e sanzionare la falsa cooperazione, iniziò a maturare l’idea di equiparare le situazioni derivanti dal rapporto associativo a quelle dei rapporti di lavoro subordinato, così da rendere inutili i tentativi di aggiramento delle tutele. La Corte di Cassazione si espresse più volte, aprendo alla possibilità di costituire un rapporto di lavoro, dando adito a quella parte della dottrina che sosteneva tale ipotesi: “ritiene il Collegio di non poter condividere la predetta giurisprudenza nella parte in cui deduce necessariamente ed automaticamente dallo svolgimento di prestazioni ricomprese nei fini istituzionali della cooperativa l’esclusione della natura subordinata del lavoro prestato dal socio”[54]. Questo orientamento innovativo diede luogo ad un amplissimo dibattito sia giurisprudenziale che dottrinale. Si fece strada così la tesi della duplicità del rapporto tra socio cooperatore e società, che era già stata sostenuta, come già ricordato, da qualcuno negli anni ottanta del secolo scorso[55]. Altra parte della dottrina rilevò uno svantaggio per i soci nella qualificazione del rapporto in termini puramente associativi, ritenendo che tale interpretazione non valutasse abbastanza il duplice ruolo del socio cooperatore e sostenendo la sussistenza di elementi che impedivano di considerare il socio solo come imprenditore, occorrendo valorizzare anche il suo ruolo di lavoratore attivo all’interno dell’impresa in una prospettiva coerente con il suo status di lavoratore. Emerse persino la proposta, con il senno di poi forse più ragionevole di altre, di elaborare una disciplina propria per il lavoro in cooperativa[56].

A spingere in questa direzione fu la crescente apprensione per il già citato problema della falsa cooperazione, cui in seguito si dedicherà una trattazione più diffusa. Tale fenomeno era a dir poco preoccupante per due motivi: innanzi tutto perché costituiva un problema di vecchia data a cui nessun governo era mai riuscito a dare una svolta[57]; in secondo luogo perché assumeva dimensioni sempre più preoccupanti, di cui gli organi legislativi erano costantemente informati dalle numerose relazioni parlamentari di commissioni istituite ad hoc, che compivano un lavoro analitico davvero ammirevole, ma che mai, fino al 2001, era sfociato in un intervento significativo nel settore. A questo proposito un autore sostenne che la falsa cooperazione aveva ormai un impatto tale da “gettare discredito sull’immagine del movimento cooperativo e da creare fondate preoccupazioni circa il rispetto dei principi di concorrenza”[58]. Proprio lo spettro della frode allo stato e dell’abuso delle agevolazioni alle cooperative portarono il mondo giuridico verso la direzione dell’equiparazione agli altri rapporti di lavoro, che costituì la terza fase, ancora in corso, della regolazione dell’istituto.

Con un recente intervento, ma che conferma una tendenza ormai acclarata, la Corte è addirittura arrivata ad invertire l’onere della prova riguardo alla sussistenza del vincolo sociale con il socio lavoratore, statuendo “che, in caso di licenziamento disciplinare intimato da una società cooperativa di produzione e lavoro, l’onere probatorio della sussistenza anche del rapporto associativo con il lavoratore compete alla società e, ove tale onere non sia assolto, deve escludersi la possibilità di attribuire al medesimo la qualità di socio-lavoratore, dovendo egli essere considerato un lavoratore subordinato puro e semplice, con conseguente inapplicabilità della L. 3 aprile 2001, n. 142, art. 2 il quale, nel caso in cui venga a cessare, con il rapporto di lavoro, anche quello associativo, prevede che ai soci lavoratori si applica la L. 20 maggio 1970, n. 300, con  esclusione  dell’art. 18.”[59]

L’intervento di modifica del comma 3 operato dall’ art. 9 L. 30/2003 che ha abrogato l’inciso “e distinto” in riferimento al rapporto istaurato tra la cooperativa e il socio, lasciando solo l’aggettivo “ulteriore”. L’intervento aveva probabilmente la pia intenzione di dissipare i numerosi dissidi interpretativi sorti in dottrina (e di cui si è data una breve panoramica al cap. 2 della parte IV), ma ebbe l’effetto contrario. Ma la dottrina, sia giuscommercialistica che giuslavoristica, ha continuato ad interpretare i due rapporto come distinti ma uniti dal vincolo di collegamento negoziale unilaterale[60], facendo, così, di fatto, cadere nel vuoto la portata della novella, che ha avuto l’unico effetto di smentire alcune interpretazioni azzardate, senza però modificare il sistema previgente.

Per quanto concerne l’accertamento del lavoro subordinato, in giurisprudenza si incorre frequentemente nella figura dell’interposizione fittizia di soggetto in frode alla legge, al fine di aggirare la disciplina contributiva. Tale figura patologica, che costituisce uno degli strumenti primari della falsa cooperazione, era stata vietata già in tempi risalenti con L. 1369/60, vietando l’appalto d’opera che avesse ad oggetto la sola prestazione di lavoro[61]. di recente la Cassazione è intervenuta più volte sul tema, specificando “che, per aversi tale interposizione vietata, è sufficiente che il prestatore d’opera svolga la propria attività in favore e sotto le direttive di un datore di lavoro diverso da quello con il quale abbia concluso il contratto di lavoro”[62], e tale presunzione semplice può essere operata dal giudice del lavoro “anche ove il rapporto di lavoro intercorra con enti pubblici non economici, in relazione però non a tutte le attività svolte da tali enti, bensì solo a quelle che abbiano carattere imprenditoriale”[63]. Nonostante tale norma costituisca senza dubbio una clausola generale, soggetta ad interpretazione normativa e quindi suscettibile di violazione o falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., la Corte ha ritenuto che “l’accertamento dei presupposti per l’esistenza di un appalto vietato rientra nei compiti del giudice del merito ed è, perciò, incensurabile in cassazione se adeguatamente motivata”[64]. Anche in questo ambito la scelta della Corte va ritenuta discutibile, in quanto la cooperativa ha come oggetto del conferimento la prestazione lavorativa stessa,

L’estensione dello statuto dei lavoratori

Dall’assimilazione della società cooperativa alla società commerciale anche sotto il profilo lavoristico discende l’applicabilità al rapporto “ulteriore e distinto” di gran parte delle norme poste a tutela del lavoro subordinato, estese dagli art. 2, 3, 4, 5 della l. 142/2001. L’art. 2 estende la disciplina dello statuto dei lavoratori e delle norme di sicurezza sul lavoro, ma i due ambiti, pur posti nello stesso dispositivo, meritano trattazione separata.

Per quanto concerne l’estensione dello statuto “ai  soci  lavoratori  di  cooperativa  con  rapporto  di lavoro subordinato  si  applica  la  legge  20  maggio  1970,  n.  300,  con esclusione dell’articolo  18  ogni  volta  che  venga a cessare, col rapporto  di  lavoro, anche quello associativo. […] Agli altri soci lavoratori si applicano gli articoli 1, 8, 14 e 15  della  medesima legge n. 300 del 1970” (art. 2 l. 142/2001). L’estensione delle norme di cui agli artt. da 1 a 12 dello stat. lav. è pacifica, in quanto si prevedono tutele, come i divieti di atti contro le libertà e gli incentivi allo studio, che potevano essere estese singolarmente, senza la previsione di un rapporto ulteriore e distino, e che risultano essere perfettamente in linea con la finalità della cooperazione. Da criticare è invece il ribaltamento operato dalle norme da una situazione di generale inapplicabilità delle tutele, con le dovute eccezioni tassativamente elencate, a quella opposta di generale applicazione delle tutele del lavoro subordinato con esclusione di alcune ipotesi.  La dottrina non ha posto molta attenzione, all’estensione della disciplina delle mansioni. Non si comprende come l’adibizione a mansioni equivalenti potrebbe tutelare il socio-lavoratore. Egli è imprenditore al pari degli altri lavoratori. Lavora in una struttura sociale in cui determina gli organi sociali attraverso il voto in condizione di parità con gli altri soci. Quindi può esercitare un controllo diretto proprio della situazione soggettiva del socio, sugli organi direttivi, che, qualora si comportassero “male”, pretendendo conferimenti eccessivi in prestazioni di lavoro, verrebbero sfiduciati alla successiva assemblea, analogamente agli amministratori delle società commerciali. In più non si capisce come potrebbero configurarsi le due figure patologiche tipiche collegate alle mansioni: il demansionamento e l’adibizione a mansioni inferiori. Per il demansionamento infatti è necessario che il soggetto datore possa escludere di fatto un lavoratore dal ciclo produttivo, imponendogli uno snervante stato di inoperatività: per fare questo sono essenziali i requisiti dell’alienità dei mezzi di produzione e dell’eterodeterminazione della prestazione correlata alla mancanza di interesse per il lavoratore per l’andamento della produzione aziendale; ma nel caso della cooperativa il soggetto lavora nella “propria” azienda, conoscendo gli obiettivi produttivi ed essendo interessato a massimizzarli, così da migliorare la sua condizione, cosa che rende difficile pensare ad un vero e proprio totale demansionamento, in quanto conoscendo l’obiettivo aziendale, il socio può, e si farà in quattro per, trovare una nuova collocazione in azienda là dove è utile la sua presenza. Per gli stessi motivi non si può parlare in senso proprio di mansioni inferiori, in quanto l’inferiorità per il socio non può essere data dalla minore o maggiore classificazione della contrattazione collettiva, né dalla qualità o quantità del lavoro, ma da ciò che i soci stessi hanno ritenuto più o meno utile per l’azienda, da cui dipende il loro benessere economico, analogamente all’impresa familiare. Se lo svolgere la mansione inferiore permette di aumentare il fatturato il beneficio dell’aumento va direttamente al socio al momento del ristorno, quindi la norma che non gli permette di essere adibito alla mansione inferiore è per lui sfavorevole e non lo tutela affatto.

Prima della l. 142/01 non erano configurabili alcuni diritti sindacali, ma la cassazione aveva più volte ribadito l’inapplicabilità dell’aspettativa sindacale[65] e del procedimento di repressione della condotta antisindacale[66] e di gran parte delle altre tutele, fatta eccezione per il solo diritto di sciopero “politico” o “di solidarietà”, posto in essere quindi per motivi diversi dal rapporto di lavoro.

L’originaria formulazione dell’art. 2 ha consentito, invece l’esercizio integrale di tutti i diritti sindacali, con l’unica differenza che tali diritti dovevano avere “forme specifiche di esercizio” concertate con le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Di fatto i diritti sindacali furono esercitati dalle associazioni sindacali senza differenze, come se si trattasse di società di altro tipo.

Che ci fosse nella legge un’insita contraddizione lo disse lo stesso Ministero del Lavoro solo un anno dopo: “L’assenza di un conflitto di interessi nel rapporto fra la società e i soci ha costituito, negli orientamenti giurisprudenziali prevalenti, la premessa autosufficiente per negare a questi ultimi, la titolarità dei diritti sindacali. […] In realtà, il legislatore si è preoccupato di ricercare un equilibrio tra la dimensione lavoristica del socio lavoratore e quella imprenditoriale al fine di conciliare l’esercizio dei diritti ivi contemplati con il particolare status giuridico. Infatti, non è da trascurare la portata dell’esclusione dell’art.18, nel caso in cui il rapporto di lavoro cessi insieme a quello associativo, così come non va trascurato il richiamo alla peculiarità del sistema cooperativo per individuare forme specifiche di esercizio dei diritti sindacali, attraverso la definizione di accordi collettivi tra le Centrali cooperative e le OO.SS comparativamente più rappresentative.”[67], recuperando così l’idea di peculiarità della situazione sostanziale del socio lavoratore subito dopo averla disconosciuta.

Un ulteriore considerazione merita la questione della libertà sindacale. L’estensione operata dalla legge 142/01 poneva infatti il problema della creazione di sindacati di comodo all’interno delle società cooperative, soprattutto se di grandi dimensioni. Nell’inciso finale dell’art. 2 della legge si affermava di conseguenza che: “in relazione alle peculiarità del sistema cooperativo, forme specifiche di esercizio dei diritti sindacali possono essere individuate in sede di accordi collettivi tra le associazioni nazionali del movimento cooperativo e le organizzazioni sindacali dei lavoratori, comparativamente più rappresentative”, così da incentivare la partecipazione dei sindacati rappresentativi a livello federale e confederale, garantendo così il corretto svolgimento dell’attività sindacale.

Nel 2003 il legislatore è intervenuto per subordinare mitigare il contrasto tra l’applicabilità dei diritti sindacali e la peculiare situazione del socio lavoratore. Il compito di bilanciare gli interessi venne affidato alla contrattazione collettiva, subordinando l’applicabilità dei diritti sindacali alla stipulazione di tali accordi di categoria. Ma nonostante la circolare 10/2004 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali[68] avesse ribadito ulteriormente all’art. 2 che “con la modifica apportata, vengono mantenuti ,nei confronti dei soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato, i diritti sindacali previsti dal Titolo III della legge n. 300/70, subordinandone però l’esercizio alla stipula di un accordo collettivo, che deve tener conto del principio di compatibilità con lo status di socio lavoratore”. La giurisprudenza di merito[69] sembra avallare la tesi di parte sindacale, avallata anche da qualche voce in dottrina[70], secondo la quale il titolo terzo dello statuto dovrebbe essere applicato indipendentemente dalla stipulazione di un contratto collettivo. E, nonostante l’apparente illogicità, autorevole dottrina si è spesa nel sostenere l’utilità dell’azione del sindacato all’interno della società cooperativa[71], anche se con il correttivo di porre attenzione a non trasformare l’esercizio di tali diritti in una turbativa dell’attività sociale.[72] In ogni caso, in mancanza di accordo collettivo o quando esso non si applica, i diritti vengono, ad oggi, integralmente esercitati dalle associazioni sindacali e tale orientamento ha reso le associazioni stesse molto reticenti a contrattare un ridimensionamento delle proprie prerogative per meglio adattarle al fenomeno della cooperazione. In definitiva, dunque il problema dell’esercizio del “contropotere sindacale” a se stessi permane immutato nonostante la novella legislativa.

L’unica eccezione espressa all’applicabilità integrale della L.300/70 è quella dell’inapplicabilità dell’art 18 stat. lav. quando “venga a cessare, col rapporto di lavoro anche quello associativo”. Anche in questo campo, se si abbraccia la tesi dell’assoluta separazione, oppure del collegamento tra i due rapporti, si può giungere a soluzioni opposte. Nel primo caso infatti il rapporto di lavoro potrebbe cessare indipendentemente dalle vicende del rapporto sociale, con sostanziale applicabilità dell’art. 18 ricavabile a contrario. se non bastassero, a confutare tale tesi, gli argomenti già esposti in dottrina sulla fallacia dell’ argumentum a contrario[73], che dimostrano come non si potrebbe applicare tale metodo logico alle norme generali o speciali, in quanto questo è proibito dall’art. 12 delle preleggi, si potrebbe aggiungere che tale profilo non rispecchierebbe la verità dei fatti, in quanto l’unica ragione di sussistenza del rapporto associativo è la prestazione lavorativa, pertanto non avrebbe alcun senso conservare l’uno senza l’altra. Di conseguenza va abbracciata la tesi del collegamento unilaterale tra il rapporto di lavoro e quello sociale, alla cui estinzione consegue anche la fine del primo, mentre l’ipotesi inversa sarebbe difficilmente configurabile, se non nell’ambito di rapporto associativo stipulato in frode alla legge, perché mancante in concreto di finalità mutualistica, dissimulando una società commerciale. Quest’ultima ipotesi, tuttavia, trovava già tutela prima della l. 142/2001 con la conversione del rapporto in subordinato a tempo pieno ed indeterminato, senza gli aspetti di specialità propri del lavoro in cooperativa[74].

[1] Corte Cost. 18 Luglio 1989 n. 408;

[2] SAPELLI, G., La cooperazione: impresa e movimento sociale, Roma, Edizioni Lavoro, 1998, p. 66;

[3] Cass. 4 Maggio 1983 n. 3068, FI, 1983, I, 814; Cass. 17 giugno 1988 n. 4145, FI Rep., 1988, voce Lavoro (rapporto), 624; Cass. 21 Febbraio 1989 n. 992, FI Rep., 1989, voce cit. 607;

[4] Cass. 26 ottobre 1977, n. 4611, FI, 1978, 414; Cass. 9 dicembre 1979, n. 5214, FI rep., 1979, in voce Lavoro (rapporto), 308; Cass. 22 Luglio 1980 n. 4785 , FI rep, 1980, in voce Competenza civile, 173; Cass. 14 gennaio 1985 n. 56, RGL, 1985, II, 381; Cass. 24 dicembre 1997 n. 13030, Riv. It. Dir. Lav., 1998, II, 837;

[5] Cass. 24692/2010;

[6] Cass. civ. Sez. lavoro,  6 Agosto 2012, n. 14143: “L’art. 2533 c.c. prevede che la delibera di  esclusione  del socio possa essere impugnata nel terrmine di 60 giorni dalla comunicazione della delibera stessa. E’ vero che la disposizione citata, come già l’art. 2527 c.c. nel regime precedente la riforma del diritto societario, non prevede formalità particolari per la comunicazione. Però richiede che la delibera sia “comunicata” perchè decorra il termine per impugnarla. Pertanto non è sufficiente la mera conoscenza che di fatto il socio abbia della delibera stessa prima della sua comunicazione; sicchè correttamente la corte d’appello ha fatto decorrere il termine suddetto per l’impugnativa dalla comunicazione della delibera e non già da un momento precedente, quale quello della produzione in giudizio da parte del socio della delibera stessa. Per la irrilevanza della conoscenza aliunde, cfr. in proposito Cass., sez. 1, 9 maggio 2008, n. 11558, che ha affermato che la eventuale incompletezza della comunicazione al socio della delibera di  esclusione,  adottata ai sensi dell’art. 2533 c.c., in ordine alle ragioni ritenute giustificative dell’ esclusione  dall’organo deliberante incide sulla decorrenza del termine per l’opposizione, non assumendo invece alcun rilievo, a tal fine, la conoscenza da parte del socio degli addebiti contestatigli nel corso del procedimento.”

[7] Cass. 9 Maggio 2001 n. 6446, Mass. Giur. Lav., 2012, 892.

[8] Cass. 19 Aprile 2001 n. 5739, Riv. It. Dir. Lav., 2002, II, 388;

[9] Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 20 Marzo 2014, n. 6537: “A prescindere dalla circostanza che, mancando la domanda del lavoratore di godere di detto trattamento da ritenersi come prima rilevato requisito costitutivo (nello stesso art. 4 del regolamento INPGI vi è il chiaro riferimento alla domanda del lavoratore per il conseguimento della pensione di vecchiaia anticipata) e che, anche sotto tale profilo, la libera recedibilità del datore di lavoro non sarebbe stata configurabile, la forma di pensionamento anticipato prevista dalla norma citata è inidonea a derogare alla regola generale non essendo equivalente a quella di vecchiaia in quanto la sua acquisizione non dipende da elementi analoghi a quelli previsti per la pensione di vecchiaia (cfr. Cass. n. 11104/1997 secondo cui l’esclusione della tutela limitativa “mentre può estensivamente operare anche nei confronti dei titolari di pensioni che, sebbene letteralmente qualificate in modo diverso, siano a questa sostanzialmente equivalenti in quanto la loro acquisizione dipende da elementi analoghi a quelli previsti per la pensione di vecchiaia (durata del rapporto assicurativo, versamenti di un minimo di contributi, raggiungimento di un limite di età), non è invece suscettibile di applicazione in via analogica ai titolari di pensioni che, per diversità dei relativi presupposti, non possono ritenersi equivalenti a quella di vecchiaia”).”; cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 14 Marzo 2014, n. 6047;

[10] R.D. 1955/1923, art. 2; L. 2 n. 370/1934;

[11] L. 236/1934, art. 8 cm. 2;

[12] L. 236/1934, art. 4

[13] D. lgs. 626/1994, art. 2, lett. a)

[14] L. 196/1997, art. 24

[15] L. 196/1997, art. 24 cm. 2 e ss.

[16] BIAGI M., Profili ricostruttivi della tutela previdenziale del socio lavoratore nelle cooperative di produzione e lavoro, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1979, pagg. 739-767

[17] BIAGI, M.- MOBIGLIA, M., La nuova disciplina applicabile al socio lavoratore di cooperativa, in Guida Lav., n. 45/2001, pag. 12; MELIADÒ’, G., La nuova legge sulle cooperative di lavoro: una riforma necessaria, in Riv.It.Dir.Lav., 2002,1, pag. 348 – furono i sindacati e gli imprenditori commerciali a spingere per l’equiparazione, entrambi per interessi di categoria;

[18] Relazione della “Commissione Zamagni”, in http://www.lex.unict.it/eurolabor/ricerca/dossier/dossier3/cap3 /zamagni.htm; – Sul finire del 1997, è stata costituita, per iniziativa della Presidenza del Consiglio, come Commissione di studio incaricata di elaborare un progetto di inquadramento legislativo della complessa figura del socio lavoratore. Tale Commissione ha concluso i propri lavori e consegnato la relazione finale in data 16 aprile 1998. Era presieduta dal prof. Stefano Zamagni, di cui appunto prese il nome, grande Economista italiano e protagonista del mondo della cooperazione e del no profit, ex presidente dell’Agenzia per il terzo settore e membro ordinario della Pontificia Accademia delle Scienze.

[19] IMBERTI, L., Il socio lavoratore di cooperativa, cit., pag. 116 ;

[20] MlSCIONE M., La nozione universale del socio lavoratore, in GAROFALO D.- MISCIONE M. (a cura di), La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, Ipsoa, Milano, 2002, pag. 30; ANDREONI, A., La riforma della disciplina del socio lavoratore di cooperativa, cit. pag. 205; BORZAGA, M., L’ambito di applicazione della L. n. 142/01, in NOGLER L.- TREMOLADA M.-ZOLI C. (a cura dì), La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, Nuove Leggi Civ. Comm., 2002, pag. 346 e ss;  BIAGI, M.- MOBIGLIA, M., La nuova disciplina applicabile al socio lavoratore di cooperativa, cit., pag. 13;

[21] SANTORO PASSARELLI, G., Le nuove frontiere del diritto del lavoro ovvero il diritto dei lavori, in Arg.Dir.Lav., 2002, pag. 240;

[22]NOGLER, L., Il principio del doppio rapporto e le tipologie lavorative, in NOGLER, L. –TREMOLADA, M. – ZOLI, C. (a cura di), La riforma della posizio­ne giuridica del socio lavoratore di cooperativa, Nuove Leggi Civ.Comm., 2002, pag. 357;

[23]IMBERTI, L., Il socio lavoratore di cooperativa, cit., pag. 140;

[24] Cass. 18 Luglio 2001, n. 9722 – che in merito a un fatto anteriore all’entrata in vigore della legge, ma pronunciatasi successivamente, asseriva: “l’espressione <<datore di lavoro>>, (…) non si presta a essere dilatata fino a comprendere la società cooperativa nei suoi rapporti con i soci.”

[25] Problemi sorgono solo in merito alla configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato tra la cooperativa e il suo presidente, che sarebbe negata, se si mutuasse semplicemente la disciplina dalla società per azioni. Tuttavia il problema è risolto dall’INPS nel messaggio n. 15031 del 07 Giugno 2007, confermato poi con Messaggio numero 12441 del 08 Giugno 2011; Cass. Civ. 1793/1996; FORTE, A., Cooperative: il presidente può essere lavoratore dipendente, in Guida Lav., n.25/2011, 18-20; tuttavia è’ legittima la clausola dell’atto costitutivo di società cooperativa che preveda la gratuità dell’incarico di amministratore, trattandosi di attività non equiparabile ad una prestazione di lavoro subordinato in senso stretto e non essendo perciò ad essa applicabile il principio costituzionale della retribuzione proporzionata e sufficiente. (Cass. 26 Febbraio 2002, n. 2861, Pres. Mileo, Est. D’Agostino, in Foro it., 2003, I, 273);

[26] ICHINO P., Sulla configurabilità di una prestazione di lavoro autonomo nel rapporto tra cooperativa e socio-lavoratore, in Riv.It.Dir.Lav., 1987, II, pag. 329;

[27] D. lgs. 276/2003 emesso successivamente alla legge di delega L. 30/2003, che riformò anche parzialmente il diritto societario. La legge prese il nome dal professore che la propose, ministro del lavoro, Marco Biagi, di cui più comunemente si ricorda la tragica scomparsa per mano delle brigate rosse, proprio in protesta contro tale riforma.

[28] IRTI N., Introduzione al diritto privato, Roma, CEDAM, 2006 – per gli aspetti metodologici – che indica la norma speciale con lo schema “se A1 + A = B + B1”, rispetto allo schema “se A allora B” della norma generica, dove A1 è l’elemento aggiuntivo che rende speciale la norma rispetto alla situazione già contemplata da A, che nella fattispecie sarebbe lo status di socio lavoratore;

[29] PALLINI M., La «specialità» del rapporto dì lavoro del socio di cooperativa, in Riv.It.Dir.Lav., 2002,1, pag. 375;

[30] FORTUNAT A., Socio lavoratore e contratto a progetto: una coabitazione difficile, in Lav.Prev.Oggi, 2004, pag. 578-583; TREMOLADA M., Lavoro a progetto e posizione del socio lavoratore di cooperativa, in MONTUSCHI, L.- TULLINI, P. (a cura di), Le cooperative ed il socio lavoratore. La nuova disciplina, Giappichelli, Torino, 2004, pag. 97-114; contra  DONDI G., Il lavoro in cooperativa nelle recenti riforme, stampato a cura dell’Autore, edizione fuori commercio, 2004, rip. in IMBRIANI L., Il socio lavoratore di cooperativa, cit., pag. 151;

[31] MONTRONE A. M., L’accordo campano per la regolamentazione dei rapporti a progetto nelle cooperative sociali, in Dir.Rel.Ind., 2005, pag. 853;

[32] COSTANTINI S., Crisi della cooperativa e modificazione in peius del trattamento economico dei soci-lavoratori, Riv.It.Dir.Lav., I, 2010, pag. 303-304; NOGLER L., Il principio del doppio rapporto e le tipologie lavorative,cit.;

[33] art. 2513 – che mette l’unico limite della “prevalenza” del lavoro dei soci su quello meramente subordinato; in certi casi, come ad esempio nell’appalto con obbligo di assunzione, la cooperativa è addirittura obbligata a istaurare un rapporto meramente subordinato con i lavoratori assunti, con mera facoltà per essi di richiedere l’ammissione a socio (Cfr. Corte app. Torino 31 Maggio 2008, in D&L – Riv.Crit.Dir.Lav., 2008, pag.899). In questo caso però i dipendenti assunti per obbligo contrattuale con la P.A. non si computano ai fini del calcolo della prevalenza.

[34] LA COSTA R., Il socio lavoratore associato in partecipazione, in Riv.Coop., n. 1/2004, pag. 23; Corte App. Milano, 259/2009;

[35] VALLEBONA, A., Istituzioni di diritto del lavoro, cit., pag. 46;

[36] Corte Cost., 12 Febbraio 1996 n. 30, Mass. Giur. Lav., 1996, 155;

[37] Trib. Catania,  ord. 610/1995;

[38] ROCCELLA, M., Manuale di diritto del lavoro. Mercato del lavoro e rapporti di lavoro, 2013, G. Giappichelli Editore, Torino, pagg. 61-66;

[39] ICHINO P., Il contratto di lavoro, I, in CICU A, MESSINEO F. (già diretto da) e MENGONI L. (continuato da), Trattato di diritto civile e commerciale, XXVII, 2, Milano, 2000, pag. 372;

[40] Cass. 27 settembre 2002 n. 14040, FI, 2003, I, 149;

[41] Cass. 4 Maggio 1983 n. 3068, FI, 1983, I, 814; Cass. 17 giugno 1988 n. 4145, FI Rep., 1988, voce Lavoro (rapporto), 624; Cass. 21 Febbraio 1989 n. 992, FI Rep., 1989, voce cit. 607;

[42]ARISTOTELE, Metafisica (in Lamberto Boni, Enciclopedia Garzanti di filosofia e epistemologia, logica formale, linguistica, psicologia, psicoanalisi, pedagogia, antropologia culturale, teologia, religioni, sociologia, Garzanti, 1981)

Questa concezione si ritrova ampiamente nella filosofia greca (Parmenide, Platone, Aristotele) medioevale e specialmente in Tommaso d’Aquino. È presente anche nelle filosofie razionaliste della età moderna e contemporanea (come in Leibniz e Hegel) ed è al centro della filosofia analitica basata sulla corrispondenza tra il linguaggio e la realtà.

[43] MILANI L., Lettera ad una Professoressa, LEF, Firenze, 2010, pag. 86;

[44] D. I, 1, 10, Ulp.;

[45] CESTER C., La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa: una controriforma?, in MONTUSCHI L. e  TULLINI P. (a cura di), Le cooperative ed il socio lavoratore, Giappichelli editore, Torino, 2004, pag. 2; BIAGI, M., Cooperative e rapporti di lavoro, Franco Angeli, Milano, 1983, pagg. 127-149;

[46] CESTER C., La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa: una controriforma?, cit., pag. 28 nota 32

[47]VALLEBONA A., Il Lavoro in cooperativa, in Riv. It. Dir. Lav., 1991, I, pag 292-293; ZOLI, C., Cooperativa di lavoro e tutela del socio, in Lav. Giur., 1994, pag. 106; PIZZOFERRATO A., Inestensibilità del Fondo di Garanzia ai Soci di Cooperative, in Lav. Giur. 1996, pag 235; contra BIAGI M., Profili ricostruttivi della tutela previdenziale del socio lavoratore nelle cooperative di produzione e lavoro, cit., pagg. 765-767 – che ritiene configurabile un rapporto ulteriore di lavoro subordinato.

[48] Corte Cost., 12 Febbraio 1996 n. 30, cit., Mass. Giur. Lav., 1996, 155; cfr. anche Corte Cost., 18 Luglio 1989 n. 408, rip. in IMBERTI L., Il socio lavoratore di cooperativa, cit. : “non mancano nel diritto positivo altre discipline dirette a introdurre trattamenti privilegiati a  favore  delle  cooperative  di produzione  e  lavoro, le quali, se rispondenti ai requisiti previsti dalla legislazione sulla cooperazione (decreto legislativo  del  Capo provvisorio  dello  Stato  14  dicembre  1947,  n. 1577), sono esenti dall’imposta sul reddito  delle  persone  giuridiche  e  dall’imposta locale  sui redditi (art. 11 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601). E tali benefici sono certamente connessi, per un verso, alla  rilevanza della  particolare  posizione  del  socio,  assimilata  a  quella del lavoratore subordinato per quanto riguarda il trattamento fiscale del reddito  (art.  47, lettera a, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597), nonche’ sotto il profilo  della  tutela  antinfortunistica  (art.  4, numero  7,  del  d.P.R.  30  giugno  1965, n. 1124), della previdenza (d.P.R. 30 aprile 1970, n. 602) e del diritto agli assegni  familiari (art.  1 del d.P.R. 30 maggio 1955, n. 797). E, per altro verso, alla causa propria della costituzione delle cooperative suindicate, che ha natura rigorosamente    mutualistica,    in    quanto    consiste nell’autoorganizzazione   e    autogestione    in    forma    sociale (coorganizzazione e cogestione alla pari) di prestatori di lavoro per la migliore collocazione e per  la  piu’  adeguata  retribuzione  del lavoro medesimo, con esclusione di fini di speculazione. Viene  cosi’  in emersione l’art. 36, ma e’ coinvolto anche l’art. 45 della Costituzione.

[49] Anche se con significative voci contrarie tra cui: SANTORO PASSERELLI G., Il lavoro “parasubordinato”, Franco Angeli, 1979, pagg. 141-146 – che configurava appunto il rapporto parasubordinato speciale tra cooperativa e socio, così da superare il problema della subordinazione; ROMAGNOLI U., La prestazione di lavoro nel contratto di società, Giuffré, Milano, 1967, pag. 236 – favorevole all’istaurazione del rapporto ulteriore fin da allora; BIAGI, M., Cooperative e rapporti di lavoro, cit. – che riconosceva l’impossibilità di equiparare i due rapporti ma sosteneva la necessità di istaurarli entrambi.

[50]Cass. Civ., Sez. lavoro, 08 Aprile 2009 n. 8527 del: “nel regime anteriore a quello dettato dalla legge 3 aprile 2001, n. 142, il cui art. 1, comma 3, dispone che i soci lavoratori debbano stipulare un distinto contratto di lavoro, autonomo o subordinato – i soci di cooperative di produzione e lavoro non possono essere considerarti dipendenti delle medesime per le prestazioni rivolte a consentire ad essa il conseguimento dei fini istituzionali e rese secondo le prescrizioni del contratto sociale; in particolare, non rileva, ai fini della riconducibilità dell’attività del socio ad un rapporto di lavoro subordinato, la circostanza che i soci siano tenuti all’osservanza di orari predeterminati, percepiscano compensi commisurati alle giornate di lavoro e debbano osservare direttive, né che nei loro confronti sia applicata, quanto all’esercizio del potere disciplinare o ad altri aspetti, una normativa collettiva. […] Il rapporto di lavoro subordinato con il socio può ritenersi sussistente nel caso in cui si deduca, dall’effettiva volontà delle parti o dalle circostanze concrete in cui il rapporto si è sviluppato, che il contratto cooperativistico sia stato utilizzato in modo simulato o fraudolento”; Cfr. anche Cass. Civ. 12777/1999; Cass. Civ. 9294/2000;

[51]Cass. Civ, Sez. lavoro, 24 Febbraio 2009  n. 4415: “Nel regime anteriore a quello dettato dalla L. 2001, n. 142, i soci lavoratori di cooperative di produzione e lavoro possono prestare la loro opera nell’ambito della cooperativa sia come lavoratori autonomi, sia come lavoratori subordinati e, in quest’ultimo caso, non è dagli elementi caratteristici della subordinazione in senso materiale che può dedursi la costituzione di un rapporto di siffatto tipo occorrendo, a tal fine, che lo statuto della società contempli, o comunque non escluda, la possibilità di costituire con i soci distinti rapporti lavorativi inerenti all’oggetto sociale.”; cfr. anche Cass. Civ, Sez. lavoro, 08 Aprile 2009 n. 8527: “il rapporto di lavoro subordinato con il socio di una cooperativa, pacificamente non impedito dallo statuto della società, dovesse ritenersi estinto per effetto della costituzione del rapporto sociale, stante l’ammissibile coesistenza dei due rapporti”;

[52] L. 1369/1960, art. 1;

[53] GENCO R., La qualificazione del rapporto cooperativo nella giurisprudenza: spunti per una riflessione evolutiva, in MISCIONE M. (a cura di), il lavoro in cooperativa, Dir. Prat. Lav., n. 21/1996, Allegato, pag. 60;

[54] Cass. Civ. Sez. Lav., 3 marzo 1998, n. 2315;

[55] BIAGI M., Cooperativa e rapporti di lavoro, Franco Angeli, Milano, 1983;

[56]GENCO R., Qualificazione del rapporto cooperativo nella giurisprudenza: spunti per una riflessione evolutiva, cit., pag. 65

[57]Basti pensare che i primi allarmi vennero dati già dalla  Commissione parlamentare d’inchiesta sulla condizione dei lavoratori in Italia, Rapporti particolari di lavoro: contratto a termine, lavoro in appalto, lavoro a domicilio, apprendistato, cit., Roma, 1959;

[58] MELIADO’ G.,Il lavoro nelle cooperative: tempo dì svolte, Riv.It.Dir.Lav., 2001, I, pag. 25;

[59] Cass. civ. Sez. lav., 06 Agosto 2012, n. 14143;

[60] CASALE F., Scambio e mutualità nella società cooperativa, Giuffré, Milano, 2005, pag. 84-.85; BASSI, A., Delle imprese cooperative e delle mutue assicuratrici. Àrtt. 2511- 2548, in SCHLESINGER P. (diretto da), Il Codice Civile. Commentario, Giuffré, Milano, 1988, pag. 455; BASSI A., Cooperazione e mutualità. Contributo allo studio della cooperativa di consumo, Jovene, Napoli, 1976, pag. 89;

[61] Art. 1, L. 1369/60: “E’  vietato all’imprenditore di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma,  anche  a  societa’  cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono.”

[62] Cass. civ. Sez. lav., 19 Giugno 2014, n. 13956; dello stesso tenore anche Cass. civ. Sez. lavoro, 13 Giugno 2014, n. 13497; Cass. civ. Sez. lav., 6 Giugno 2014, n. 12813;

[63] Cass. civ. Sez. Lav., 22 Maggio 2014, n. 11387; cfr.  Cass. 24 agosto 1991 n. 9107;

[64] Cass. civ. Sez. Lav., 11 Marzo 2014, n. 5568; Cass. 657/2008; Cass. 41817/2006; Cass. 2356/2004;

[65] Cass. Civ. 3426/1972; Cfr. Cass. Civ. 4897/2012;

[66] Cass. Civ. 9722/2001, Foro It., 2001, I, 3093;

[67] Circ. Min. Lav 34/2002, in http://www.uil.it/cooperazione/circolareminlavoro34_1762002.pdf;

[68] Circ. Min. Lav. 10/2004, in http://db.formez.it/FontiNor.nsf/f4302670d7fd6e078025670e00524

476/4BCF79D80A7F67B2C1256F93005B1C31/$file/circolare_n10.doc;

[69] GUARISO A., Il socio lavoratore tra rito ordinario e rito del lavoro,in D&L – Riv. Crit.Dir.Lav., 2003, pag. 736 – nota a sentenza Trib. Voghera 2 ottobre 2003 (decreto); Trib. Torino, 22 febbraio 2005 (decreto), dott.ssa MALANETTO, in IMBERTI, L., Il socio lavoratore di cooperativa, cit., pag. 173 (nota 241);

[70] MlSCIONE M., Soci di cooperativa: applicazione dei Ccnl, Dir.Prat.Lav., n. 27/2003, pag. 1812;

[71] GALGANO F., L’autogestione cooperativa e il sistema organizzato di imprese, in AA. VV., L’impresa cooperativa negli anni 80. L’autogestione e i problemi della crisi economica, De Donato, Bari, 1982, pag. 78; GIUGNI G., L’apporto del movimento cooperativo all’ipotesi dell’autogestione, cit., pag. 123;

[72] MELIADÒ G., La nuova legge sulle cooperative di lavoro: una riforma necessaria, in Riv.It.Dir.Lav., 2002,1, pag. 360 – che avverte tale possibilità in un uso improprio dell’art. 28 l. 300/70;

[73] IRTI, N., Introduzione al diritto privato, cit.;

[74] Cass. Civ., 3043/2011;

Riccardo Fratini

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